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26 aprile 2008

Momenti a casa Cervi


Siamo arrivati "alla bassa" in un meraviglioso giorno di primavera. Già dalla mattina sapevo che non sarebbe stato un giorno qualunque e attendevo con ansia l'arrivo (fin da Ancona) in un treno superaffollato di mia mamma, mio fratello e Agnese. Ancora prima di alzarmi immaginavo che quell'alba mi sarebbe parsa di un rosso più intenso del solito, che una forte consapevolezza durante tutto il giorno avrebbe camminato a fianco del mio sentire, che uno spirito di fratellanza mi avrebbe reso lieve e dolce il respiro. Casa Cervi ti accoglie come solo un abbraccio materno è capace di fare. Appena entri nel cortile senti una dolce sensazione di calore al ventre, ti sembra che papà Cervi sia ancora lì ad attenderti. L'orizzonte infinito accarezza il fossato. Il grano, ancora verde, ondeggia sfiorato dal vento. Già dalla mattina avevo messo in borsa le bandiere che mi accompagnano da una vita. Ci aspettavamo che ad accoglierci, all'ingresso, ci sarebbe stato "Cin", partigiano sorridente dal dialetto difficile, e così è stato. A fianco a noi ragazzi con la kefia e i piercing, donne con fiori fra i capelli, gonne colorate, sottane, voci, giochi e sorrisi di bimbi, odore di grigliata, collane. Sotto il palco tanta gente aspettava di cantare. Ogni tanto intravvedevamo fra la folla numerosissima una mondina: cappello di paglia, calze smagliate, vestaglia, fazzoletto rosso al collo; poi un partigiano. Signore preparavano la pasta fatta in casa e ridevano delle mie importune fotografie. Avrei voluto portarmi via un ritratto di ogni componente di quella grande famiglia, una famiglia che sentivo mia. Dopo l'applauso del discorso ufficiale, migliaia di mani si sono alzate al cielo, ad accompagnare i Fiamma Fumana e il girotondo delle mondine più sorridenti che mai, Cisco, La Casa del Vento.

Son la mondina, son la sfruttata,
son la proletaria che giammai tremò:
mi hanno uccisa, incatenata,
carcere e violenza, nulla mi fermò...


Irresistibile voglia di saltare per scaricare la troppa vita che straripava dalle mie vene. Sollievo nella consapevolezza che la memoria non morrà mai, finché esisteranno partigiani come noi, tutti quelli che come noi parteggiano, sono di parte, dalla parte giusta! E un grazie speciale a chi ha reso possibile questa boccata di speranza.

Qui alcune delle tantissime foto, dei tanti ritratti, di questa indimenticabile giornata.

20 aprile 2008

A Pastè e per un uomo nuovo

Pastè passava le sue giornate in piazza. Pastè era sempre il primo a votare. Pastè era stato l'unico a concedere il muro di casa sua per appendere la bacheca con L'unità. Tutti conoscevano Pastè, ma quasi nessuno sapeva che Pastè era malato di tumore, uno di quei tumori che non lasciano speranza. La notte del 13 Aprile era stata particolarmente difficile, il dolore era una spia che poteva facilmente identificare. Il cielo nuvoloso, all'alba, era andato via via schiarendosi, fino a regalare alle persone libere un meraviglioso sole. Io dalle 6:45 vivevo la prigionia del seggio. Dopo due giorni di conteggi di schede, la burocrazia aveva ormai mangiato e digerito i miei pensieri. A cinque minuti dalla chiusura Pastè si era affacciato alla porta dell'aula di scuola materna in cui svolgevo per la prima volta il mio compito di scrutatrice. Il rappresentante di lista alla mia destra mi aveva sussurrato che non servivano documenti, solo una ragazza giovane come me poteva non sapere che quello era Pastè. Di fronte ai miei occhi un signore che dimostrava più della sua età, affaticato, ma deciso. Gli ho restituito la tessera elettorale. Sua sorella, che lo sosteneva, lo ha visto cominciare a piegarsi ma, nonostante tutto, arrivare fino alla cabina in cui non riusciva a stare in piedi. Provvidenzialmente gli è stata data una sedia. Si è seduto con la scheda e la matita in mano, ha cominciato a segnare il suo voto e poi ha emesso l'ultimo rantolo. La burocrazia ci ha impedito di precipitarci a soccorrerlo e si è dovuto aspettare il finanziere per tirarlo giù dalla sedia, perché la priorità era data alla scheda parzialmente votata. La burocrazia ha impedito ai soccorritori di non infierire con mezz'ora di rianimazione sul corpo di un uomo chiaramente morto. La burocrazia ci ha impedito di lasciare la stanza col cadavere, mentre i parenti subivano un doppio dramma. La burocrazia ci ha impedito di piangere l'uomo, che ormai non era altro che cosa, e ci ha costretti a proseguire, col cadavere nella stanza, al conteggio. Sono uscita a mezzanotte dal seggio ancora più convinta che questa società ha perso. L'uomo ha perso.
Veltroni, a cui Pastè stava cercando di consegnare il suo voto, nonostante la morte, sappia che ha disilluso la speranza di un uomo che stava morendo e ha comunque trovato la forza di vestirsi, salire in macchina, sfruttare gli ultimi minuti disponibili di apertura del seggio e di vita per credere ancora in qualcosa che è definitivamente morto con lui, è morto in questa società, è morto con questa politica.
I giornalisti comincino a sentirsi responsabili per questo clima di odio sociale, per questa caccia alla sicurezza, per questa esaltazione dell'interesse personale.
Non servono i commenti elettorali. Sono passata attraverso la completa sfiducia nell'uomo. In treno, al ritorno, ho guardato tutti con odio, ho pianto, ho singhiozzato, ho urlato senza che nessuno mi chiedesse se stavo bene, se avevo bisogno di una carezza. Ora ho solo bisogno di poter credere alla distruzione di questo modello sociale e alla riconquista di una solidale umanità. Una sinistra moderata non serve ed è bene che, per propria colpa e per colpa di chi di sinistra non ha più neanche l'ombra, sia scomparsa. Aspetto di capire se posso investire quel po' di anima che mi è rimasta in un nuovo progetto. Se si può di nuovo convincere a dare. Ho bisogno di tempo.

05 aprile 2008

Aki

Immagine di Dialogo sul cinema, la vita, la vodka

In me c'è un 60% di esistenzialismo, un 20% di comunismo, un 10% di ecologismo di sinistra e un 10% di anarchia. Tutto il resto è acqua e normale socialdemocrazia


Dialogo sul cinema, la vita, la vodka di Aki Kaurismäki e Peter von Bagh è, innanzitutto, pubblicato dalla casa editrice ISBN di cui segnalo anche Come gli stregoni hanno conquistato il mondo di Francis Wheen e curato dalla cineteca di Bologna. Il cinema di Aki mi è particolarmente caro perché rappresenta "un granello di sabbia in un mondo insensato" definizione tratta dalle parole del regista stesso, che così ha definito la sua scelta di rifiutare l'invito dell'academy of motion picture arts and sciences vista l'imminenza della guerra in Iraq, aggiungendo a ciò la dichiarazione che "il cinema deve vivere, ma si dovrebbe accordare la stessa possibilità ai civili iracheni: bambini, donne, uomini". Il cinema di Aki è spesso il cinema degli ultimi che arrancano nella società del colonialismo americano, ma quasi senza l'elemento del conflitto di classe, visto che dai poveri ai ricchi siamo tutti schiavi della stessa malattia: il mercato. E' un cinema che cerca disperatamente l'umano e lo trova nella dignità del sentimento che ormai riesce a sopravvivere solo nel bisogno, sopraffatto dalle insegne al neon che hanno distrutto l'immagine delle città e il criterio di solidarietà fra le persone. Commuove questa ricerca disperata di speranza, questo voler dare l'immagine della dignità, del rispetto di se stessi nonostante la perdita totale sul piano sociale degli emarginati che il cinema ha rifiutato di rappresentare. Helsinski, come fosse un corpo, si trasforma, diviene un cancro che, attraverso la disoccupazione, corrode l'essere sociale la cui unica salvezza risiede nella solidarietà che sta via via scomparendo. I dialoghi si rarefanno e gli attori recitano con la forza dello sguardo, la sensibilità europea del fare cinema diventa preponderante e si esprime la potenza ideale dell'inattività, della persona qualunque, dello spazio caricato di oggetti portatori della sensazione nostalgica della fine di un mondo e dell'inizio del niente. L'importanza del silenzio o dello spazio bianco fra le righe. Persino Amleto si mette in affari, nel commercio delle paperine di gomma. Lo stato sociale soccombe, il modello del socialismo reale perde la guerra fredda e alla Finlandia non resta altro che la vodka, così nasce la pazza anarchia anticlericale dei Leningrad cowboys con la loro critica a questa democrazia con la frusta. Di Aki mi piacciono il coraggio e la fantasia intuitiva e spontanea che non si lasciano schiacciare dalla sua notevole preparazione intellettuale, il suo modo di fare cinema con pigrizia e artigianato. Di Aki mi piace che i suoi personaggi possano parlare con un fiore o bruciare gli scritti di una vita per scaldare la propria donna malata senza cadere nella retorica ma essendo profondamente umani nel momento in cui l'umanità si estingue. Di Aki mi piace la foto di Peltsi bambino in Nuvole in viaggio. Mi piace sentire il desiderio di chiamarlo per nome, guardare il suo viso fotografato e, tastandolo, sentirlo caldo nonostante il gelo del Nord da cui sente l'esigenza di fuggire. Mi piacciono la sua ironia e la sua rabbia disperata a cui i suoi personaggi cercano di dare un'ultima speranza, il fatto che, nell'età del postmoderno, creda ancora all'importanza di una storia. A tutto questo denso umano, la sua amicizia con von Bagh aggiunge calore su calore, simpatia e comprensione immediata, il gusto di poter ascoltare una conversazione fra vecchi amici malati (quindi innamorati) di cinema e di vita, che non sono altro che la stessa cosa.