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24 settembre 2015

Francesco, giullare di Dio.

"Godi, fratello corpo"
[S. Francesco D'Assisi]

Innocenzo III dice a Francesco: "tu assomigli di più ad un porco che ad un uomo". Francesco corre a rotolarsi in un porcile e poi dice "Ora, però, ascoltami".


Le gerarchie ecclesiastiche lo hanno usato perchè serviva a ripulirsi e poi messo da parte.
Così la chiesa supera le crisi che la caratterizzano.

Nota: recuperare gli aspetti più scandalosamente folklorici o paradossali della tradizione francescana (giullare di Dio).

(Grazie Ginzburg)
[Folklore, magia, religione. Storia d'Italia, Einaudi. Volume I: I caratteri originali]

14 settembre 2015

I cavoli miei

Avvertenza: è una favola e va letta (obbligatoriamente) con la cadenza e il tono di voce dei bambini. Lo so che non è facile, però è semplice.


I cavoli miei.

La mia mamma mi ha raccontato che quando sono nato io, sono nato sotto un cavolo.
Quel giorno i lombrichi e le talpe aravano la terra insieme col trattore cingolato del mio papà.
Siccome sono nato sotto un cavolo, allora - a me - mi ha battezzato la pioggia.
I bambini nati sotto i cavoli diventano persone grandi molto diverse da quelle che sono state portate dalle cicogne: chi è nato sotto un cavolo vede il mondo dal basso verso l’alto.
Le cicogne, i deltaplani e gli elicotteri col telecomando sono cose da bambini ricchi.
Quelli atterrano, mentre gli aquiloni che costruisce il nonno decollano e quando si rompe il filo partono.
Ai bambini nati sotto i cavoli, il mondo sembra molto più grande ed è ancora tutto da esplorare, quindi sono molto più curiosi rispetto ai bambini che il mondo lo scoprono tutto in una volta, tutto insieme dall’alto.
Questo io l’ho detto alla mia mamma e lei - dopo - mi ha detto che si è finalmente spiegata il motivo per il quale sono sempre in mezzo come il cavolo.
La mia mamma dice anche che di bambini nati sotto un cavolo ne siamo una ciurma, perché di mamme che hanno fatto una cavolata ce ne sono tante in tutto il mondo: c’è chi è nato sotto un broccolo e si capisce - dice lei - che non possa essere troppo bravo a scuola e chi, invece, l’hanno trovato sotto le cime ed è tutta rapa.
Ecco perché esistono i cavoli neri e i cavoli cinesi o, per i bambini inglesi, i cavoli cappuccio.
Mia sorella, lei fa la smorfiosa e dice di essere nata sotto un cavolfiore.
Ma io non ci credo
E ho detto al maestro che il cavolo di mia sorella aveva gli afidi cerosi ed era tutto brutto quando è nata.
Lui viene dalla città e, invece di arrabbiarsi, ha sorriso. È stato contento, perché mi ha detto che gli ho insegnato una parola nuova e che ogni parola nuova che si impara e che si insegna è un piccolo atto di creazione - dice lui - che aggiunge un pezzettino di mondo al nostro mondo.
E così ha disegnato un pianeta con il gessetto bianco sulla lavagna nera e dentro ci ha scritto proprio “afidi cerosi”.
Il mio papà mi aveva detto, invece, che gli afidi cerosi sono una brutta cosa.
Ieri la mia mamma mi ha chiesto di raccontare al papà cosa facciamo a scuola, e quando io ho nominato gli afidi cerosi, lui si è arrabbiato tanto come se gli avessi detto una parolaccia. Adesso dice sempre che a scuola ci insegnano solo stupidaggini, ma a me - invece - piace pensare ai grossi pidocchi extraterrestri di gesso che conquistano i mondi neri della lavagna.
E così io ci penso e non glielo dico.
Ad accomunare bambini nati sotto cavoli diversi, c’è il fatto che vanno sempre in giro con i nonni e i nonni per non perderseli se li attaccano alla cintura. Così, quando i nonni si fermano a parlare con altri nonni, i bambini nati sotto i cavoli si perdono in mezzo ad una foresta di gambe. Invece, quelli portati dalla cicogna, il loro papà li tiene sempre in braccio, ma così non possono vedere il bar da sotto il tavolo del bar.
A guardare il bar da sotto il tavolo del bar, si può scoprire il mondo di noi bambini nati sotto i cavoli.
I bambini portati dalla cicogna, che stanno sempre in alto, loro non lo vedono e credono che esista solo il mondo visto dall’altezza delle persone grandi, ma non è così.
Il mondo sotto il tavolo è molto più popolato di quello sopra il tavolo - è lì, infatti, che si scontrano eserciti contrapposti di formiche e di molliche, spesso armati di puntine e forcine per capelli - e tutte le cose che ci si possono trovare, sono cose molto utili.
E poi, bisogna imparare a scavalcarle lì, le cose.
Insomma, ho capito che noi bambini nati sotto i cavoli passiamo molto tempo con il naso per aria - come dice la mamma - mentre quelli portati dalle cicogne il naso lo tengono sempre in basso.
Però, anche se siamo così diversi, io quando li incontro con quei bambini ci gioco insieme.
Finora ne conosco solo uno.
Mi ha detto che il suo papà lo manderà a studiare alla scuola dei piloti d’aeroplani e che lui ce l’ha un elicottero col telecomando.
Io non ci credevo e allora un giorno me l’ha fatto vedere.
Lui, mentre aspettava di farlo decollare, già pensava all’atterraggio (perché l’atterraggio è la fase più delicata, gliel’ha insegnato il suo papà).
Quel giorno ho capito che anche i bambini portati dalle cicogne sono capaci di guardare il mondo col naso all’insù, solo che di solito non lo fanno, perché non hanno tempo, devono rimanere concentrati sull’atterraggio.
Anche il mio papà non ha mai tempo, perché lavora tutto il giorno sul trattore cingolato.
Forse da grandi - esseri senza tempo, abituati a guardare il mondo dall’alto verso il basso - tutti dimentichiamo un po’ di guardare in su.
“Il tuo elicottero, però, non ci può arrivare fino alle stelle”.
Lui ha guardato in alto, valutando la possibilità di un atterraggio dalle stelle, ma non c’erano le stelle, perché era giorno.
C’erano le nuvole.

09 settembre 2015

Palestine Day by Day: A Beautiful Resistance.

Lo so, l'articolo è un po' lungo, ma aiutatemi ad adempiere una promessa.
Ho chiesto loro: "cosa si può fare per aiutarvi?"
E la risposta è stata "racconta la nostra storia, diventa ambasciatrice della nostra causa nel tuo paese".

Premessa
Un giorno qualunque di lavoro, primavera 2015.
Il mio contratto in ufficio è appena scaduto, ma ho ricevuto un paio di buone notizie: d'estate lavorerò con i bimbi di Legambiente e in autunno terrò un corso universitario.
La sopravvivenza in tempi di precarietà mi è garantita ancora per qualche mese.
Come mi capita sempre più spesso sono davanti al computer, mangio un boccone in piedi e passo da una finestra all'altra sul monitor per non rimanere focalizzata dodici ore al giorno sui materiali che sto preparando per un seminario universitario che non prevede neppure un rimborso.
Arriva un messaggio su facebook.
Mi scrive Paolo dell'Associazione di promozione sociale "A la Calle" di Rimini.
Ci conosciamo da diversi anni per motivi politici, ma non ci siamo mai frequentati.
Paolo mi chiede se gli organizzo un'iniziativa pubblica a Parma, cercano persone che abbiano voglia di partecipare alla loro "Carovana dei diritti": un viaggio in terra di Palestina.
Mi torna in mente il periodo in cui sostenevo attivamente la causa palestinese, appoggiando iniziative quali il boicottaggio dei prodotti israeliani, seguendo quotidianamente le attività portate avanti da singoli, ONG o associazioni a Gaza e in Cisgiordania.
Ricordo di essere andata al funerale di Vittorio Arrigoni, il discorso che ho tenuto per lui il 25 aprile di quell'anno e realizzo anche che da allora non mi sono più informata sulla situazione là.
Accetto immediatamente ad una sola condizione: devono portarmi con loro.

Partiamo il 16 agosto, dopo aver preparato una serie di documenti che certificano che la nostra presenza a Beit Sahour è dovuta al monitoraggio di un progetto di cooperazione chiamato "Tunes for peace". Lo ospitano al Palestinian Centre for Rapprochement between People.
http://www.rapprochement.org/
Per quanto possa sembrare assurdo, infatti, per arrivare in Palestina occorre passare attraverso severi controlli israeliani e l'accesso non è per niente scontato: si rischia di essere rimandati indietro.
Se il turismo di tipo dichiaratamente religioso è tollerato, la presenza di cooperanti e, più in generale, di internazionali su territorio israelo-palestinese non è gradita.

La notte fra il 16 e il 17 agosto la passiamo in un albergo a Istanbul.
Queste sono le mie prime impressioni sul mondo arabo, appuntate su un quaderno, mentre lasciavo la capitale turca alla volta di Tel Aviv e poi mi spostavo verso la Guest House che ci avrebbe ospitati.

In viaggio verso Beit Sahour, 17 agosto 2015
   Nei caffè turchi, anche quelli per turisti, i dervishi mantengono sempre un'aria di mistica concentrazione, un dito appena sollevato verso l'alto a far da vertice, il corpo un tramite perfetto fra la terra e il cielo. Le ragazze velate ridono e fumano narghilè, altri fanno le abluzioni prima di entrare in moschea. L'imam inizia prima dell'alba a cantare per mezzo di enormi megafoni in una sorta di continuità sodale fra tradizione e modernità.
Lasciata Istanbul alla volta di Tel Aviv mi sono trovata ai miei piedi i confini dell'Asia. L'aereo ospitava almeno tre delle grandi religioni monoteiste. Spiegato del progetto di cooperazione, superati i controlli e il primo check point lasciamo Tel Aviv per Gerusalemme e poi saliamo su un autobus pubblico palestinese.
L'impatto col muro è fortissimo. Bisogna scendere e passare i tornelli. Di là c'è un altro mondo.
Emozioni scomposte.
Realizzo a poco a poco dove sono e sono le informazioni e i dettagli apparentemente più banali a darmene la dimensione.




Al gate a Istanbul ricordo di aver visto delle donne vestite in un modo per me irriconoscibile. Era qualcosa a metà fra un abito contadino di metà Settecento localizzabile in qualche area irrangiungibile dell'Est Europa e un costume di carnevale. Gli uomini, vestiti di nero, in abito tradizionale, si erano allontanati e solo al loro ritorno ho potuto identificare la provenienza di quella famiglia: coloni.

Paolo e Marco, le nostre guide esperte, ci hanno organizzato due settimane molto intense per permetterci di prendere familiarità col territorio e con la cultura palestinese.
Ogni giorno incontriamo un paio di associazioni.
Il primo incontro è fissato nella sede dell'ARIJ, l'Applied Research Institute di Gerusalemme il cui scopo è monitorare la colonizzazione israeliana e le attività nei territori palestinesi occupati.
http://www.arij.org/
All'istituto ci danno conto della situazione generale, del piano israeliano di occupazione dei territori e in particolare del nuovo progetto di divisione della Cisgiordania e cambiamento demografico per mezzo di tre enormi corridoi di sicurezza, come pure delle violenze quotidiane perpretate a danno delle comunità palestinesi da coloni ed esercito.
Ci spiegano come nasce un outpost e in che modo si trasforma in colonia, ci parlano delle demolizioni di case.
Affiancano a questo puntuale lavoro di monitoraggio la descrizione dei molti progetti attivi.
In una città dove l'acqua è razionata a causa del controllo israeliano delle risorse, dove la popolazione (a maggioranza cattolica) è costretta a subire le violenze della colonia nata a pochi chilometri di distanza e in costante espansione e dove non esiste un servizio di raccolta dei rifiuti, all'ARIJ sviluppano l'agricoltura biologica, elaborano sistemi di coltivazione senza terra (qualcosa di simile all'idroponico), lavorano sul concetto di sostenibilità ambientale.
Intanto a Har Homa - la colonia grigia e a pianificazione urbanistica del tutto geometrica e razionale che spicca alle spalle di Mounif, che nel frattempo ci sta mostrando la verdura che producono - i coloni hanno villette con piscina, tutti i servizi, giardini e parchi per bambini.



Mounif dell'ARIJ
Il giorno seguente Marwa, una militante israliena che si batte per i diritti civili palestinesi, ci spiega cosa significa rifiutarsi di fare il servizio militare e la difficoltà di lottare contro la costruzione di parchi naturali e infrastrutture finalizzati alla realizzazione della "Grande Gerusalemme" e farne capire gli scopi alla società civile.
Lo stato israeliano, infatti, non essendo riuscito a risolvere il problema della presenza araba a Gerusalemme est tramite la costruzione del tristemente famoso muro, ha permesso la nascita di colonie tutto intorno alla città. Tali colonie vengono poi collegate con la città per tramite di strade a solo uso israeliano, a cui i palestinesi non possono accedere. In tal modo, continuando a costruire, le colonie diventano un tuttuno col tessuto cittadino principale e la residua comunità araba è accerchiata e inglobata all'interno di una megalopoli di proporzioni enormi.
Marwa ha fatto un anno di carcere e ha un volto serio e invecchiato, pur essendo una bellissima ragazza. I militanti come lei sono esclusi dalla comunità israeliana. Spesso vengono allontanati dalle famiglie, fanno fatica a trovare un lavoro o un appartamento in affitto.

20 agosto 2015
  Siamo in viaggio fra Beit Sahour e Ramallah su un vecchio furgone a otto posti noleggiato a Betlemme. Quello che i palestinesi chiamano "service", dato che il servizio di linea di autobus esiste solo nelle strade ad uso israeliano, dove ad ogni fermata ci sono due o tre militari armati a servizio, a "proteggere" i coloni.
Passiamo per Azarya, zona franca lasciata fuori dal muro i cui cittadini si rifiutano di pagare la tasse allo stato israeliano ed è diventata zona di ricettazione.
Fuori dalla colonia file di lavoratori arabi che chiedono un lavoro al caporalato ebreo.
Il paesaggio è caratterizzato da intere piantagioni di pini marittimi, che gli israeliani piantano al fine di evitare che i pastori palestinesi possano far pascolare pecore e capre e da un forte odore di diossina.
Un cartello rosso ci avverte che stiamo entrando in zona vietata dalla legge israeliana.
Niente foto o si rischiano problemi in aeroporto, al ritorno.
In realtà in questa zona non esiste neppure la microcriminalità. Mi sento sicura.

A Ramallah ci accoglie un'associazione che si occupa del supporto legale dei prigionieri palestinesi: Addameer.
 http://www.addameer.org/
Dal 1967 ad oggi più di 800.000 palestinesi sono stati detenuti nelle carceri israeliane, spesso senza capi d'imputazione. Il trasferimento nelle carceri israeliane è fra l'altro vietato dalla convenzione di Ginevra.
Li interrogano per 75 giorni, nessuna traduzione è prevista durante il processo, tengono le informazioni riservate, possono rinnovare di sei mesi in sei mesi la detenzione senza capi d'imputazione, anche i bambini vengono accusati e gli vengono fatte firmare dichiarazioni di colpevolezza per poter tornare a casa, la tortura è praticata e socialmente accettata in quanto "servirebbe a salvare altre vite umane". Le visite dei familiari sono difficoltose, spesso impossibili.
Ma il dato più spaventoso di tutti è quello che in inglese viene definito "medical neglect". 
Immaginate cosa significa negare le cure mediche ad un malato di cancro?
Si può essere incarcerati anche solo perchè si espone la bandiera della Palestina.
Quando la ragazza che ci spiega la situazione finisce di parlare, il suo volto incorniciato da una vetrata luminosa da cui riusciamo ad intravedere la città, ci chiede se abbiamo domande.
Dopo un momento di totale silenzio il suo volto serio si scioglie in un sorriso e ci dice che capisce che l'impatto emotivo possa essere forte.
Al campo profughi di Qaddura incontriamo anche le attiviste dell'Association of Women's Action for Training and Rehabilitation che si battono per i diritti delle donne.
www.aowa.ps
Se pensate che la Palestina è probabilmente il paese più avanzato del mondo arabo per ciò che riguarda i diritti delle donne, continuamente messi in discussione da ciò che accade a livello internazionale, capirete bene l'importanza del loro lavoro.
Al centro per disabili, intanto, hanno inventato una preghiera che consente a cattolici e musulmani di pregare insieme.

Visitiamo il museo di Mahmoud Darwish, il cui insegnamento nelle scuole è vietato dagli israeliani, ma la cui poesia rimane di un'incredibile e unica potenza espressiva e di una dolorosissima attualità.
Qualcuno ha scritto sul quaderno delle firme "I feel sad because Mahmoud died".
Davanti alla tomba di Arafat un pullman di bambini che cantano: sono venuti a porgere omaggio al Presidente. 
Il ritratto di Yasser è appeso in moltissime case e, per quanto i palestinesi siano a lui legati da profondo affetto, credono che gli accordi di Oslo siano stati la fine di ogni speranza. 
Nessuno più crede alla soluzione "due popoli, due stati".

Nel frattempo la gioiosa confusione dei mercati arabi, la sregolatezza nella guida, il senso profondissimo della solidarità sociale, dell'identità tradizionale, della comunità ci convince che assomigliamo straordinariamente a questo popolo così sofferente, eppure così vitale.


Entrando al campo proughi di Aida, quello che colpisce è la grande chiave a decorazione dell'ingresso. Impariamo in seguito che i profughi hanno conservato le chiavi delle case da cui sono stati cacciati via e reclamano ancora il diritto al ritorno.
Al centro culturale Alrowwad si occupano di quella che loro chiamano "Beautiful Resistance", hanno una ludoteca, una biblioteca, un piccolo teatro e stanno allestendo un museo etnografico.
 http://www.alrowwad.org/en/

   
21 agosto 2015
  Nei campi profughi conservano ancora le chiavi delle case da cui sono stati cacciati.
A tenerle in mano pesano, scottano.
Gli anziani ricordano il profumo particolare che aveva la menta e la salvia di casa loro.
Oltre alle chiavi conservano proiettili progettati per esplodere solo una volta penetrati nella carne, i contenitori dei lacrimogeni - a centinaia - diventano vasi, decorazioni.
Dovunque capiti, che sia la sede di un'associazione o una grigliata fra amici, tutti hanno una storia tremenda alle spalle e qualche caro in prigione.
Eppure ci si batte per i diritti delle donne, si aprono ludoteche per far respirare ai bambini qualche minuto di pace (che la violenza quotidiana indurisce), il muro si trasforma in un cineforum.
La chiamano "Beautiful Resistance".
A proposito di scontro di civiltà: quando avremo capito quant'è importante per gli equilibri mondiali questo fazzoletto di terra sarà ormai troppo tardi.
Maledetto sia chi fa di tutta un'erba un fascio.


In un solo chilometro quadrato sono ammassate seimila persone. La disoccupazione è al 49%. Case sono cresciute dove prima erano solo tende, per cui gli spazi sono ridottissimi. Due famiglie vivono in ogni stanza, possiedono un bagno per ogni quartiere. I soldati israeliani se devono prelevare qualcuno non si azzardano a passare negli stretti vicoli, ma abbattono le costruzioni spianandosi il passaggio fino alla destinazione a cui sono interessati.
La ragazza che ci spiega la situazione dice di aver avuto per la prima volta coscienza del fatto che gli israeliani non miravano ai terroristi, ma a tutti i paestinesi, quando hanno attaccato la sua scuola. Gerusalemme è a pochi chilometri da lì, ma lei vi è stata solo nel 2012 e solo grazie ad un permesso speciale ottenuto per tramite di un'ONG.

A Nablus i bambini ci salutano dalle finestre e tutti ci invitano a visitare le botteghe artigiane: la piccola economia locale produce sapone d'olio d'oliva, buste di ceci zuccherati.
Nei bazar assaggiamo le spezie, compriamo il caffè arabo, ci lasciamo affascinare dai mucchi di merce accatastati un po' ovunque. 




Il centro storico, punteggiato di lapidi a ricordo degli uccisi e dei nomi dei paesi da cui sono dovuti scappare, è di grande valore artistico-culturale.

Nel campo profughi di Jenin incontriamo la situazione più dura. 
Vi opera il Freedom Theatre.
http://www.thefreedomtheatre.org/
Il teatro, oltre che allontanare i ragazzi dall'orrore di un'occupazione militare quotitidiana per tramite della cultura, serve anche da cura per chi soffre le gravi conseguenze psicologiche della violenza subita o, peggio, abbattutasi sui familiari.
Sono consapevoli di non essere occupati solo politicamente ed economicamente, ma anche culturalmente.
Il ragazzo che ci accoglie ha chiaro che la strategia politica degli occupanti intende dividere i palestinesi, grazie al miraggio del benessere che offrono le città israeliane (dove tuttavia la condizione degli arabi è anche più dura di quella che vivono in Palestina: una situazione di vero apartheid).
Qualcuno provocatoriamente gli chiede se non preferirebbe vivere in una città con acqua corrente.
Risponde che sì, gli piacerebbe tornare a vivere come prima dell'occupazione.

All'ingresso del campo profughi un cavallo realizzato con i pezzi di lamiera delle ambulanze fatte esplodere dall'esercito.
23 agosto 2015.
  Oggi per la prima volta in vita mia ho visto la povertà. 
Eppure tutti ci invitano a cena, persino il taxista.
Ora sto viaggiando dentro il bagagliaio di una macchina e sono contenta, persino commossa.

Hebron è una città divisa non solo per quartieri, ma persino una strada può essere tagliata a metà.
I coloni si appropriano dei piani alti delle case e buttano immondizia e pietre sul mercato arabo, di sotto.
I palestinesi sono costretti a mettere grate alle finestre. Andare a prendere l'acqua sul tetto può costare la vita. Si vive in perenne stato d'assedio.
Ve la ricordavate questa foto? Era stata scattata qui.




Nonostante questa situazione Al Rehabilitation Committee ricostruiscono le case demolite rispettando gli antichi sistemi di costruzione.
http://www.hebronrc.ps/index.php/en/
Non posso sopportare l'idea che la nostra guida palestinese non possa procedere lungo una strada della sua città e che noi, grazie ai nostri passaporti internazionali, pur essendo stranieri, possiamo invece attraversare il check point che conduce alla colonia, al quartiere successivo.

Il giorno dopo c'è anche lo spazio per essere orgogliosi e emozionarsi per un pezzo d'Italia in terra palestinese.
http://tuwaniresiste.operazionecolomba.it/
Visitiamo il villaggio di At-Tuwani, tristemente famoso perchè i coloni spararono sui bambini palestinesi che andavano a scuola. Intervennero allora gli internazionali, offrendosi di fare da scudo umano. Le violenze perpetrate sugli internazionali riuscirono a far muovere l'opinione pubblica.
Da allora lì opera l'Operazione Colomba.
Un presidio squisitamente italiano in un villaggio di pastori.
I ragazzi, armati solo di videocamera e passaporto, continuano a garantire ai bimbi un accesso sicuro alla strada, accompagnano i pastori al pascolo dovendo subire quotidianamente le violenze dei coloni rispondendo solo ed esclusivamente con pratiche di non violenza.
E questo impegno assiduo, questa presenza costante ha garantito ad At-Tuwani il riconoscimento di un piano regolatore e conseguentemente il blocco delle demolizioni.
Chiedo a Sara cosa si fa quando un colono ti punta una pistola alla testa, come è successo a lei.
Risponde che non si deve fare assolutamente nulla, ma ci si limita a cercare di intercettare il suo sguardo.
Qualsiasi cosa succeda è il pastore che decide il da farsi, si rimane con lui.
Nessuno è mai riuscito a parlare con un colono. A volte l'unica speranza è da riporre nei soldati, altrettanto violenti, ma fra cui ogni tanto capita qualche ragazzino che sta svolgendo il servizio militare solo perché obbligato.
Il senso della solidarietà palestinese è talmente forte che ora si cerca di estendere il modello ai paesi circostanti, fra cui Susya dove la situazione è ancora più tragica, ma per far questo c'è bisogno di volontari.





Situazione simile vivono i beduini del Negev.
Andiamo ad Al Araqib dopo aver conosciuto Silvia Boarini e Linda Paganelli, che stanno lavorando su un documentario lì ambientato e intitolato "Blooming the desert".
Arriviamo un'ora dopo l'ottantottesima demolizione.
Per loro "Resistere è esistere". Legati a strettissimo filo con la loro terra, i beduini hanno deciso che non se ne andranno mai. Dopo che il loro villaggio è stato distrutto restano a difendere il loro cimitero, a rivendicare il loro diritto di rimanere. 
Seduti tutti intorno ad un vecchio salice in mezzo al deserto, ci offrono tè alla menta, battaglia e disperazione.
Sono convinti che riusciranno a rimanere un minuto in più dei loro nemici. Chi è alleato con Isarele è loro nemico. La comunità scappata in città li sostiene.
http://silviaboarini.com/UnrecognizedintheNegev.html


Anche gli arabi israeliani non se la passano bene.
Ce lo raccontano ad Haifa i ragazzi di Baladna, un'associazione per i giovani.
http://www.momken.org/?mod=cat&ID=24
Fra le loro molte attività inventano ritorni immaginari per i profughi nei villaggi d'origine, creano extracurricula nelle scuole per insegnare la letteratura palestinese, propongono usi alternativi dei social media.

In Israele costruiscono dappertutto, quello che rimane negli occhi è il profilo infinito di gru in azione contro l'orizzonte.
Gli alberi che piantano nel deserto si coprono, tetramente, di polvere bianca.

Infine il professor Mazin Qumsiyeh - professore di Yale e Duke prima di Betlemme - ci spiega che anche la biodiversità è a rischio a seguito dell'occupazione israeliana, mentre la società tradizionale viveva in armonia con la natura.
Anche lui non può trattenere le lacrime quando parla di una sua collega uccisa dall'esercito.
Infatti muoversi per il territorio palestinese significa essere soggetti a continue vessazioni, impiegare ore e ore per far pochi chilometri, non essere liberi negli spostamenti.
Nonostante il passapoporto americano, gli è negato l'accesso a Gerusalemme.
Eppure cerca di coinvolgere i ragazzi, farli collaborare nella costituzione del Museo di storia naturale palestinese.
https://www.youtube.com/watch?v=APxvAZh8qrQ
Se si vuol essere informati sulle loro attività, così come sulla situazione di privazione dei diritti umani più generale gli si può chiedere di iscriversi alla sua newsletter: mazin@qumsiyeh.org

27 agosto 2015
  Ultimo giorno a Beit Sahour e l'impressione è quella di tornare a casa partendo da casa.
Già mi logoro di nostalgia.
Come potrei mai dimenticare la rabbia e il dolore composti dei vecchi pastori e beduini che resistono all'abbattimento delle case ("la terra è la mia identità, resisto per esistere"), il bimbo che muove la manina della sorellina piccola per salutarci, il sapore di un tè alla menta offerto anche se non ti rimane niente?

Scatto una foto ad un'altra bimba che mi guarda curiosa da dietro una grata.
Come potrei dimenticare la bellezza del deserto e del paesaggio, il senso assoluto dell'ospitalità palestinese, l'idea di aver ritrovato quello spirito comunitario che da noi non esiste più e qua invece esiste eccome, pur essendo loro segregati, aggrediti da soldati e coloni, minacciati persino da una "modernità forzata"?
Qua portano avanti le battaglie più avanzate che in Italia riusciamo solo a proporre.
Parto con una sensazione amaro dolciastra in bocca e l'intenzione di voler fare a tutti i costi quel poco che si può fare per questa splendida terra.


A tutti prometto di raccontare. E di tornare.

Sostenete la campagna di boicottaggio dei prodotti israeliani, i palestinesi dicono che ha effetti concreti.
http://www.bdsmovement.net/

20 giugno 2015

Ci chiamano Ph.Ds


Alla fine il traguardo è arrivato e si è portato via di colpo le tante difficoltà incontrate lungo il percorso.
Insieme alla profonda emozione di essere in quell'aula, accanto ai grandi, mi è tornato addosso, improvviso e inaspettato, un profondo senso di appartenenza all'istituzione.
Lo stesso senso d'appartenenza, rispetto e soggezione che mi aveva mossa quando ho scelto di partire per questa impresa.
Scelta difficile che mi ha vista a un passo dalla borsa in altre università, ma decisa a voler rimanere nella mia anche senza.
Ho sofferto tanto, lavorato di più, dormito pochissimo, mi sono sentita inadeguata e impreparata, ma ho fatto del mio meglio, ho adorato la mia ricerca, gli studenti, i colleghi ora dottori e quelli ancora dottorandi, l'odore degli archivi, i sorrisi dei registi dimenticati di cui vorrei che fosse apprezzato il lavoro, i volti e le mani di vecchi contadini, la vocazione squisitamente etica degli antropologi e dei colleghi storici.
Ho imparato a non cedere alle difficoltà, ho rivisto i miei irremovibili rigidi principi, ho cercato di spingermi un po' più in là. Tutto quello che ho dato mi è stato restituito nelle due ore più intense della mia vita.
Pur fra grandi conflitti ho avuto Maestri, anche e soprattutto quelli che pretendono di non esserlo.
Non avrei mai creduto di farcela, ma adesso sono dottoressa di ricerca.
Con ogni probabilità non sarò mai una ricercatrice, ma dicono che ieri è stato sancito che ho imparato a fare quello che più avrei amato fare in assoluto nella vita (piccolo, immenso privilegio).
E infine, cosa non da meno, quando sono volati i cappelli ho recuperato anche la mia naturale leggerezza, gioia, voglia di vivere, progettare, costruire, imparare, capire, collaborare, essere d'aiuto con quel poco di competenze messe da parte.
Adesso chissà dove ci porterà tutti noi - strambi esseri votati all'Università e ai saperi - questra strada chiusa e la voglia infinita di ricominciare, anche a costo di mettersi a scavare.

01 marzo 2015

Ieri notte, in stazione a Bologna

L'uomo delle informazioni aspettava che passasse la notte sotto un tabellone senza informazioni, per tre euro all'ora, contro il profilo dello squarcio di trentacinque anni fa, in mezzo alla puzza di gasolio della "macchina movimenti".
Manganello alla mano poliziotti incattiviti a urlare addosso a me, che stavo inutilmente tentando di fare un biglietto inutile in mezzo ad un inutile sottobosco di macchinette automatiche e a cacciare gente accampata, che non bastavano tutte le sedie della sala d'aspetto ad accoglierli tutti.
Che cazzo sta succendendo anche a questa città?
E che cazzo ci faceva lì in mezzo un giapponese con un cappellino della Ferrari che i barboni, da sotto le coperte, avevano cominciato a chiamare "uomo di mondo", intonandogli addosso "Roma nun fa' la stupida stasera..."?
E la ragazza che mi si è attaccata pure addosso, perchè aveva paura di aspettare lì dentro o lì fuori i venticinque minuti di ritardo dell'ultimo treno della notte, dove andava?
Magari era lì soltanto ad aspettare marzo, come me.

01 febbraio 2015

Il senso delle parole (o delle cose)

Un pochino angosciata dalla rapidità con la quale una domenica si sostituisce all'altra, ma non abbastanza da farmi rinunciare alla solita carrellata settimanale di quotidiani - quelli che macchiano le dita di uno schifoso inchiostro e vanno poi ad ingombrare la differenziata - oggi trattengo a modo mio un trafiletto sull'importanza delle parole.
"Algoritmo", "algebra", "liuto", "altair, zenit e nadir", sono stelle, sono strumenti musicali, sono concetti matematici o astrologici, ma sono anche parole arabe.
Oggi una delle poche parole arabe che riconosciamo come tali è "jihad", che però non significa come crediamo noi o come ci fanno credere da una parte e dall'altra "guerra santa", ma piuttosto "sforzo interiore di essere buoni credenti".
A cambiare il senso delle parole, come hanno spiegato eminenti linguisti ed epistemologi, si rischia di cambiare il senso delle cose; un po' come si rischia di cambiare per sempre la fisiologia di un paesaggio a suon di bombe (o di abusi).
Il problema è che poi, nonostante tutti gli sforzi degli attivisti o degli etimologi, è dura tornare al senso originario delle parole (o delle cose).