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21 luglio 2009

Venezia di bianco e di nero

Non ti scrivo tanto di Venezia, quanto della sua consapevolezza.
Sono sdraiata fra porose lenzuola di bianco fragoroso, intorno a me pareti di un azzurro vivido, appena oltre la finestra e gli scuri socchiusi da cui filtrano fascine di raggi di sole s'intravedono calli dai nomi improbabili, storie scolpite nella lingua e nelle impietose pieghe. Desidero smarrirmi per goderne il racconto.
Riposo al fresco di paesaggi di tendaggi e biancheria, di tanto in tanto mi bagno gli occhi coi pensieri liquidi conservati nel bicchiere posto sul mio comodino. Pungono e bruciano, poi vanno a schiarire il rosso nerastro delle mie palpebre abbassate. Lacrime alogenuro d'argento su membrane acetato di cellulosa che la luce decompone in regioni d'argento metallico.
A Venezia il mare odora d'oriente, crea forme alle finestre, incrosta di sale gli occhi già corrosi.


Riposano con me, all'ombra di possenti rampicanti, tavolini in ferro battuto ricoperti da spesse tovaglie in canapa sbiancate con la cenere, recuperate da vecchi bauli in cui conservare doti d'altri tempi.
E un gatto.
Un gatto che fa capolino fra piante e gambe. Il suo manto grigio incupisce le ceramiche vuote di latte e caffè.
D'improvviso è notte.
Funeree gondole scivolano su neri sospiri, tagliano le tenebre dei canali oscuri con piccole lame d'argento. Finissimo argento nella notte dei tuoi capelli che cominciano ad imbiancare al sorgere dei tuoi cinquant'anni.
Venezia è una città scolpita in una luce di due secoli fa. Tremolano proiezioni di mura illuminate dalle candele o dalle lampade a gas.
È vero, di Venezia non so scriverti, ne mancano gli odori delle radici (gli odori nelle narici) seppure (neppure) in sovrapposizioni temporali su fogli traslucidi.

Più tardi, o magari fra qualche giorno, proverò a raccontarti della biennale. Se appena mi riuscirà lo farò sempre su questo stesso foglio. Tu dormi, oppure aspettami.