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21 agosto 2010

Matàhr (la mia Gerusalemme)


Dopo tanto tempo una classica domenica mattina. Tante scadenze a settembre che provo a dimenticare per il tempo di due ore riconquistate. Socchiudo gli scuri cercando quella penombra appena sufficiente per leggere, cerco il respiro e il contatto della mia gatta nera, sfoglio il domenicale de Il sole 24 ore, momento che aspetto per tutta la settimana.
Nei muscoli delle gambe persiste la sensazione di strade polverose fra Basilicata e Puglia.
È impossibile levarsi Matera dagli occhi.
Uno stato di affezione permanente ne implovera i ricordi, coprendoli di una patina d'autenticità, di vita vissuta talmente spessa da poterci lasciare solchi, segni con il dito. E su questa superficie mi trovo ora a scrivere, in attesa impaziente del primo acquazzone che sciolga per sempre scritture in ambizione di eternità congelata per lasciare il posto a potenza d'oralità, di racconto stratificato, sinfonia di voci. Siedo alla mia scrivania poco convinta di trovarmi a casa e piuttosto renitente al lasciare fluire parole maturate in profondità come tuberi in una terra arsa dal sole e lavata dagli incendi.
Attraverso uno di quegli incendi appiccati per pulire i margini della strada siamo entrati a Matera e un incendio è stato il primo sguardo oltre la balconata panoramica. Perché a Matera entri senza accorgertene. Prosegui fra chilometri di nulla, in un meraviglioso paesaggio arido e ti ritrovi, d'improvviso, immerso in una spopolata periferia. T'inerpichi, svalichi e solo quando abbandoni l'automobile e svolti dietro l'ennesimo angolo t'accorgi davvero di Matera.
Matera è una città scolpita sul mondo e i suoi abitanti sono uomini e donne sconfitti.
Con tenacia e ingegno sono sopravvissuti dignitosamente alla povertà, alleati delle Murge e della Gravina, ma a sopraffarli è stata la ricchezza. Una guerra fulminea, chiamata legge del 1952, se li è portati via, ha corroso i loro ricordi di tufo fino al crollo, fino ai primi crolli e alla caduta nell'oblio delle tante cisterne pubbliche.
Per risolvere il problema delle misure igieniche e della mortalità infantile, ricchi uomini dagli occhi nascosti da lenti scure, venuti dal Nord, decisero che era tempo di murare le case, nascondere quella vergogna.
Furono venduti gli asini, non si sentì più schiudersi le uova sotto il letto, i ragazzini smisero di addormentarsi su caldi mucchi di letame. E il paese ora non suona più dei richiami delle madri, non ci sono vecchiette mezze addormentate davanti alla porta, in cucina le pareti sono bianche di calce, il fuoco non mostra il ricordo nerastro dei cibi preparati per undici figli, intorno al braciere non si raccontano favole aspettando che l'uomo torni dai campi. È morta la civiltà del mutuo soccorso.
Ma abbiamo incontrato Donato Cascione, la sua famiglia, il suo Museo. Donato che è stato costretto ad andarsene dai sassi da bambino e, per tutta la vita, ha sentito l'esigenza di ritrovare quei suoni, quegli odori, al punto da tornare nel rione quando era ancora roba da matti a salvare memorie da cui i materani erano stati sradicati, di cui erano stati costretti a vergognarsi. Un sigaro spento in bocca, grandi occhiali, una canottiera bianca e mani capaci sia di lavorare che di accarezzare a comunicarci la sua missione, a riportare il sacro a casa sua, a sentire il diritto di essere ormai stanco e sconfortato. Per terra trucioli di legno, fra le sua dita la corda a riparare la sella, polvere di pietra bianca.
E poi vecchi dipinti bizantini nelle chiese rupestri, ingegnosi canali di raccolta delle acque, sculture moderne che trovano il loro ambiente naturale fra antichi cunicoli di pietra e sussurrano ancora la storia di una grande civiltà uccisa a cui non è stato lasciato il suo tempo.
Il viso scavato di Pier Paolo Pasolini lo si ritrova dappertutto qui come lo si ritrova ad Alberobello e come s'intuisce lo sguardo di Luchino Visconti fra le commoventi esagerazioni del barocco consumato delle chiese di Lecce. Pier Paolo parla di dignità, umanità e bellezza. Lui che aveva capito riscatta quella vergogna e, poeta, realizza un'antropologia che è una lotta, che è ancora tutta da venire, persino tutta da concepire. La si scorge solo negli occhi di uomini come Donato (o come Ettore e Vittorio) e nei loro Musei che non sanno, o non possono, sopravvivergli. Edifici come casse toraciche dei loro cuori.

Voi udrete con le orecchie, ma non intenderete. E vedrete con gli occhi, ma non comprenderete. Perché il cuore di questo popolo si è fatto insensibile e hanno indurito le orecchie e hanno chiuso gli occhi per non vedere con gli occhi e per non sentire con le orecchie [P.P.P. da Mt 13, 10-17]