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31 marzo 2008

Un pizzico di nostalgia

In questi ultimi mesi di vita universitaria la semplice azione di entrare e uscire dal portone monumentale del mio dipartimento ha acquisito un sapore di dolciastra malinconia, appena uno zucchero a velo di tristezza. Ho comprato un borghesissimo thè al limone, invece della più proletaria acqua-della-macchinetta-a-30-centesimi, per superare tre ore di affollatissima solitudine (quattro libri popolano la mia borsa) e mi sono andata a sedere davanti a questo schermo anche se la voglia era quella di lasciare che la mia pelle potesse godere di questo sole malato da finta primavera e spartire un pò della mia pizza con i temerari passerotti della Montagnola, invece di accontentarmi delle rondini stilizzate sulla bottiglia di plastica. Tant'è che la voglia di raccontare mi ha spinta qui, forse perché stamattina i margini dei libri e il taccuino nero sono già sazi di pensieri scritti con calligrafia veloce e nervosa. Innanzitutto ieri ho potuto visitare, per giunta gratuitamente, considerata la settimana della cultura, la pinacoteca di Brera. Lasciati i visi - stanchi nonostante fosse domenica - della metropolitana, lasciato il Duomo e le migliaia di persone e piccioni ai piedi della madonnina o davanti le vetrine griffate, sono passata sotto lo sguardo marmoreo barbuto e buono di Leonardo Da Vinci, per sempre condannato, nella sua immobilità, a guardare uomini e donne eleganti entrare alla Scala senza mai poter godere di un solo spettacolo. Un tram giallo fermo al semaforo dava al paesaggio quel tono di colore che mancava al cielo sereno e grigio: voglia del sole di Lisbona. Brera impacchettata dal restauro ci ha accolto con lo striscione di qualche studente che intendeva metterci in guardia sul pericolo della morte (per omicidio e non per suicidio come qualche teorico vorrebbe farci credere) dell'arte. Nonostante l'audio-guida ci siamo goduti Raffaello, Mantegna, Bellini, Caravaggio, tutta l'iconografia cristiana rinascimentale come pure la collezione Jesi coi suo Morandi, Picasso, Marini, Boccioni, Carrà ecc. E negli occhi ci sono rimaste le rughe di dolore non della Madonna, ma la pietà di una madre. A questo si è aggiunta la strana sensazione di frequentare l'ultimo corso con una ricercatrice che, attraverso l'amore per Chatman, Deleuze, Bergson, Bazin e per tanto cinema europeo, ci ha dato tutto quello che ho imparato in questi anni di università e di vita. Attraverso la lezione dell'esistenzialismo prima e di Heisenberg poi, e abbandonando i manuali, ci ha insegnato innanzitutto a trovare un nostro proprio metodo d'analisi, a sviluppare un pensiero critico, fare igiene mentale e non accontentarci mai del già detto. Ma non si è limitata a farci innamorare della potenza innegabile dei mondi di luce , con più affetto si è rivolta ai suoi limiti, all'impossibilità dell'uomo di descrivere la tragedia, al mutismo dell'orrore. Così nella Sarajevo di Angelopoulos la tragedia resta dietro la nebbia, Dreyer ha una caduta di stile nel cercare di rappresentare la morte, i personaggi di Hiroshima mon amour non possono ricordare gli olocausti della seconda guerra mondiale. Chi ama il cinema deve vedere almeno una volta nella vita l'ultimo epiodio di Al di là delle nuvole e rubare una lezione di Loretta Guerrini al DAMS, l'università non della formazione al lavoro, come vorrebbero tanti industriali, ma della crescita culturale.

22 marzo 2008

La resistenza non è solo ricordo


Radici Resistenti - 25 aprile 100 blogger


La resistenza non è solo ricordo, la resistenza è presente e speranza di futuro. In vecchie sedi di partito con le pareti scrostate, le cui crepe sono nascoste da strati di vecchi poster ingrigiti dal fumo, nei centri sociali, nelle piazze colorate da un mare di bandiere rosse si fa ancora resistenza. Ennio il partigiano è morto, ma la sua rabbia e il suo amore cresce inestirpabile dentro ognuno dei suoi comunisti d'allevamento, dentro di noi.
Al Museo Cervi ci siamo stati per la prima volta un paio d'anni fa e c'è rimasto nel cuore per sempre. Nella pianura infinita abbiamo incontrato gente cordiale di campagna e osservato le spighe di grano che cominciavano, piano, a crescere accarezzate dal vento come il nuovo raccolto di Alcide. Ci siamo sentiti vivi in un luogo di una sacralità vitale e non cadaverica come quella impostaci dalla religione e dalle nuove religioni di mercato.
Al Museo Cervi ci ha accolto Cin e non c'era bisogno di districare il suo dialetto difficile per capire quello che aveva la necessità di raccontarci, bastava osservare le sue mani muoversi frenetiche a sostenere la forza di parole indomite, a scuotere ogni muscolo del suo corpo anziano e della sua anima giovane per poi appoggiarsi su strumenti contadini abbandonati dal tempo e raccontarci, piano, quasi con rispetto, di Alcide, di Genoveffa, dei loro figli.
Fra le nostre montagne il nostro pensiero si è appoggiato commosso e rispettoso su ogni lapide, abbiamo provato vergogna nel sentirci destinatari di quel sacrificio.

Con orgoglio e speranza ci consideriamo figli di una grande madre tenera e forte il cui eroismo senza retorica viene ogni giorno sacrificato dall'ignoranza, dall'interesse personale, dall'odio, dalla smemoratezza, dal revisionismo. Una madre povera ricca di umanità e coraggio. Una madre saggia dal cui parto è nato il frutto che protegge nel suo nucleo il seme dei diritti civili: la nostra povera costituzione martoriata dai parassiti. Perché la nostra grande famiglia non dimentica gli orrori del fascismo ancora vivi e minacciosi e non rinuncia al sogno di una società più giusta.

Viva la resistenza!

Il 25 Aprile vi voglio tutti al grande concerto a Casa Cervi, a Campegine di Gattatico. Per mostrare che per noi è ancora viva e necessaria la resistenza, per cantare con il coro delle mondine di Novi, i Fiamma Fumana, Cisco e La Casa del Vento.
E un ricorso commosso di Maria, che ci ha lasciato nel Giugno dello scorso anno.

Misticanza 2.0

Contro il gran numero di ideologie
che noi abbiamo rifiutato
l'unica grande invenzione davvero efficace
e che ci piace è
questa dittatura imposta dal mercato.

Giorgio Gaber

Fra giornate passate a sciogliere pagine d'inchiostro in caffè annacquati il sollievo di laghi nelle fossette agli angoli della bocca di bimbi felici. Ridare vita alla cose morte e creare poesia con ciò che è vivo solo in potenza.

Sono stata lontana da internet e dal sole per un esame che ha preteso più vita di quel che meritava, ma ho comunque un pò di cose da raccontare e ricordare e voglio farlo qui, in questo pezzo di carta inodore.
Al Museo Guatelli ho collaborato ai laboratori didattici con i bambini delle elementari. Abbiamo costruito sorrisi e burattini e, timida, ho visto alzarsi prima una, poi tante manine a chiamarmi "maestra", io che so che sarò studentessa per sempre perché una vita intera non basta ad imparare per potersi davvero dichiarare maestri di qualcosa. E ho preso il giallo filo di lana fra le mani, i pezzi di stracci, i cucchiai di legno per cucinare, le matite colorate, i piccoli telai e con loro - e altre splendide persone - ho creato figure pronte a prendere vita grazie alla fantasia anarchica e esplosiva dei bambini.
Oggi per la strada una donna di quattro anni non rinunciava al suo ombrello colorato, in pieno sole, nonostante i tentativi di sua madre e io meravigliavo del suo mondo libero, senza regole, dove un ombrello non ripara dalla pioggia, ma è una macchia di colore nel grigio di palazzi sporchi di periferia.
C'è stato Paolini in facoltà, a presentare il suo ultimo spettacolo. Recitando, chiacchierando, giocando, disperando, resistendo, ha portato il ricordo di un mondo scomparso (il suo, quello di suo padre) e la forza di credere ancora in un mondo diverso da quello degli acquisti di emozioni a rate. Ha portato la critica alla società del mercato, dimostrando che teatro civico è anche economia, citando Rifkin e la Thatcher, fra un nugolo di pensieri disordinati e potenti. E io, sotto i notturni portici di una Bologna stanca, mi sono incazzata e ho pure pianto per questo. Solo questa malata cultura, per cui da sei anni muoio e rinasco sui libri, può arginare l'abbandono dello stato, la fuga interessata dell'industria, l'avanzare delle mafie.
In macchina, con l'autoradio alto che lasciava filtrare musica oltre il finestrino appena abbassato su questa ondata di primavera, ho stupito di ciò che nel 2003 riusciva ancora a pubblicare Gaber che ora, a distanza di pochissimi anni, non ci sarebbe mai permesso. Ho urlato con lui che sprofondasse il vaticano.
Ho camminato in mercato lasciandomi trasportare dalla folla liquida. C'era una donna anziana che vendeva a cinque euro disegni di gatti. Una povera donna di Salerno, con il velo in testa e la gonna lunga fin sopra le caviglie, qualche ciuffo di capelli bianchi indomiti, le calze corte. Con lei ho parlato, mentre la gente ci spingeva, ci travolgeva, comprava stock di abiti firmati e prosciutto che non aveva odore. E, ora, col suo gatto sulla scrivania, che lascia macchie di pastello sulle dita, ho avuto bisogno di queste disordinate parole ad arginare l'onda di vita che mi è passata fra le mani e che, inutilmente, provo a trattenere scrivendo.
Intanto Maria Pia, con cui ho riscoperto di nuovo Bologna e S.Stefano, in treno se ne torna a Potenza e alla sua splendida Matera accompagnata da cento nuovi ricordi.

10 marzo 2008

(Documentario) Genere minore di un'arte minore?

Il fotografo procede, con l'intermediario dell'obbiettivo, a una vera presa di impronta luminosa, a un calco (...) [ma] il cinema realizza lo strano paradosso di ricalcarsi sul tempo dell'oggetto e di prendere oltre a ciò l'impronta della sua durata

Ritaglio di Deleuze su Bazin

Segnalo:
Un'ora sola ti vorrei Alina Marazzi
Essere e avere Nicolas Philibert

E per l'8 Marzo niente mimose, noi vogliamo anche le rose

04 marzo 2008

Un quarto di secolo a Varese Ligure.


Socchiudo la finestra e lascio entrare strusciando attraverso la piccola fessura - quasi fosse un segreto sussurrato ad un orecchio discreto - la musica di una fisarmonica dell'est, mani cariche d'anelli e sorriso d'oro. Lo sguardo rimbalza sui bianchi tendoni del mercato stracarichi di cianfrusaglie. Il cielo si annuvola, il vento trascina in spericolate piroette foglie annoiate. La mia gatta nera le segue con lo sguardo e si sloga le mascelle in sbadigli. Si stira lunga, scura e lucida come il fiume di notte. Dagli occhi emana il bagliore di un'idea improvvisa e con un balzo appoggia leggera i polpastrelli sul freddo pavimento, lasciando per un momento l'alone del suo calore corporeo a disperdersi sulle piastrelle.
Provo a immaginare il sapore di matrimoni di gusti improbabili, poi soccorro nella mia memoria labile frammenti di reale, o di sogno.
A Varese Ligure c'era un sole che scaldava pelle affamata di aria. Ci siamo arrivati dal Passo di Cento Croci, mentre la montagna proteggeva la valle dalle nuvole che le ammorbidivano la punta e osavano sfidare la roccia e violare il confine. Il panorama dal passo è irreale, brullo e immenso in contrasto col versante marino, verso Levanto, festa di ulivi tenaci. La strana sensazione che provoca l'idea di un varco fra due mondi appesantita da storie di briganti e di frati, dagli scheletri di alberghi di un turismo che muore sconfitto dalla piatta omogeneità dei mondi tropicali.
Circolare borgo perfetto progettato con precisione già nel 1300, crea cunicoli di portici, sorriso senza denti, archi di gengive come note di ampiezza musicale diversa, e viene difeso dalla porta e dal piccolo castello. Uomini come lucertole al sole fuori dai bar. Anziani negli orti, lungo il fiume o a passeggio aiutati dal bastone. Il farmacista a scambiare parole fuori dalla bottega.
Intrecciare la lingua, curiosa, provando a ripetere i nomi di piatti sconosciuti: u tuccu, i Corxetti, La Cima con la mostarda di cipolle.
Al caffè un pacchettino timido che appare sopra la tovaglia in cui scoprire due splendidi cerchioni spessi da appendere alle orecchie per non cedere mai alla sedentarietà, a ricordarmi di essere nata donna ormai venticinque anni fa, sia ieri che oggi fra le braccia di chi mi assomiglia di più al mondo, egocentrico puro amore.
E poi il mare.