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26 maggio 2008

Appunti per una teoria dell'identità zingara

L'identità si forma a contatto con la diversità, presupposto di una vera universalità. Questo è un concetto che i rom hanno molto chiaro. Ai loro bambini la prima cosa che insegnano è la differenza fra rom e non rom, ovvero gagè. In questo atteggiamento, sicuramente, si nasconde anche il seme di una diffidenza, frutto di millenni di persecuzioni e garanzia di sopravvivenza fisica e culturale (unione nella sofferenza), ma allo stesso tempo un diverso modo di concepire il mondo e se stessi. Per l'uomo occidentale, troppo spesso, non esiste diversità praticabile, il dialogo avviene solo a seguito dell'omologazione. I rom, invece, concepiscono quello che sono solo grazie alla differenza con l'altro. La storia ha dimostrato che l'occidente ha spesso considerato l'altro una minaccia da annientare o, peggio, fagocitare (colonizzare, adottare, educare). Zingaro, invece, non esiste se non esiste gagè. L'altro, proprio nella sua diversità, è valore fondante dell'io. Lo zingaro è abituato, dopo infinite peregrinazioni, al confronto con ogni popolazione e, da ognuno di questi confronti, nasce una specificità che non impedisce alle varie comunità sparse per il mondo di capirsi e riconoscersi a prescindere dal percorso migratorio affrontato. Ogni rom vive una doppia identità culturale. La propria e quella del paese d'appartenenza (ne adotta i riti, la lingua, le abitudini conservando, contemporaneamente, i propri). Alleandosi con la cultura maggioritaria ne impedisce l'assimilazione. Vogliamo cacciarli dalla nostra terra senza considerare che il rom non ha terra, di conseguenza il mondo intero è il suo luogo, nel mondo intero ha diritto di cittadinanza, dove è la comunità (che intera corrisponde alla nostra famiglia, anche senza vincoli di parentela) è la sua casa. Senza considerare, poi, il fatto che quasi tutti i rom che vivono ormai da decenni sul nostro territorio si sono registrati e sono, a tutti gli effetti, cittadini italiani.
Ci spaventa la diversità dell'uguale. Infatti, mentre le donne hanno mantenuto un aspetto "folcloristico" per ragioni pratiche (ad esempio un "effetto scenografico" per la chiromanzia), gli uomini, dovendo ormai adottare i lavori dei gagè, sono pressoché indistinguibili da noi.
La cosa che maggiormente avremmo da imparare da uno zingaro è la concezione utilitaristica del lavoro che viene sempre dopo la persona. Ormai incapaci di concepire le nostre vite al di fuori di una maschera sociale abbiamo corrotto irreversibilmente la nostra scala di valori e gli affetti, il piacere sono amputati dalla nostra vita frenetica. Il rom sa che il lavoro dà sostegno economico, ma è ancora in grado di pesare il valore dei rapporti e sa che una giornata spesa in compagnia è altrettanto importante che una giornata lavorativa. Costringere l'uomo ad orari fissi è stata una delle sconfitte dell'uomo contemporaneo che, dopo aver inventato macchinari che gli permettessero di avere più tempo libero (produrre di più in minor tempo con minori costi) non è comunque riuscito a liberarsi dalla costrizione della giornata lavorativa fissa e di tempo, di fatto, non ne ha risparmiato. Inoltre lo zingaro non concepisce il lavoro in termini di guadagno monetario, ma guadagno creativo.
Quando i primi rom provenienti dai paesi balcanici sono approdati in Italia, secoli fa, hanno adattato le loro abilità artigianali ed artistiche al nostro mondo prevalentemente contadino, seguendo le feste paesane e fornendo cure alle nostre credenze popolari (al malocchio). Con l'avvento della società dei consumi non è morta solo la solidarietà su cui si fondavano i rapporti fra le persone, ma sono venute meno le loro microeconomie. Li abbiamo costretti a mandare i bambini a scuola, nonostante la loro cultura preveda che la comunità intera si occupi dell'educazione dei bambini, per poi ghettizzare i piccoli creando classi speciali con portatori d'handicap e immigrati che non parlano la lingua attribuendo, così, un valore negativo alla differenza.
Il rom non concepisce la guerra. La guerra è conseguenza della sedentarietà, del considerarsi padroni, proprietari di qualcosa. Il nomadismo, invece, è collegato al concetto di commercio. Il mondo si trasforma in un grande mercato, luogo neutro, di scambio e di pace.

[...] xulaj [in romanes] significa padrone, colui che è il possessore, detentore di qualcosa, in particolare di terre e di case. Analizzando l'etimo di xulaj viene fuori una associazione molto sintomatica con rulì o xolì, che esprime la rabbia, l'ira. Dunque il possesso si accosta alla rabbia, mentre in italiano padrone deriva da padre, la persona che ha diritto di possesso, per lo zingaro il padrone rappresenta l'eterno irascibile.*

La nostra è una cultura scritta dove quasi non esiste spontaneità, ogni produzione culturale deve rifarsi al precedente, ogni produzione artistica è mummificata nel peso di una tradizione fondamentale e spesso ingombrante (rinascimento o neorealismo che sia).

In un convegno svoltosi a Cachan nel 1995 sulla Resistenza francese si alzò un signore e disse: "Io ho fatto tutta la Resistenza, ma mentre la facevo non avrei mai immaginato che fosse una cosa tanto complicata come ora la state facendo voi"**

Il rom fa vivere la sua cultura orale sul momento, per lui esistono solo il presente e la memoria che l'essere umano è in grado di archiviare, più vicina al concetto di esperienza che di Storia. Ciò gli assicura maggiore istinto e predisposizione all'ascolto. Maggiore capacità d'interpretazione. Con quintali di carta e le peggiori violenze non siamo stati in grado di sopraffare un alito di voce sempre pronto ad augurarci Lactho Drom: buon viaggio!


*L'identità zingara. Riti miti magie racconti proverbi lingua, Bruno Morelli, Anicia, 2006, pag.53
**Prima lezione di storia contemporanea, Claudio Pavone, Editore Laterza, 2008, pag.65

Domenica 8 giugno corteo nazionale contro gli atti razzisti perpetrati contro il popolo rom, per informazioni e adesioni http://www.associazionethemromano.it/newsletter.htm

19 maggio 2008

Sarà l'odore di pioggia che contamina i miei pensieri

Ho visto un uomo morire e diventare cosa, ma non non ho sentito la differenza con i vivi, oggetti del sistema. Il suicidio è ad un livello intellettuale superiore alla sopravvivenza, è il rifiuto della legge naturale, la lotta di liberazione dalla tirannia di una falsa realtà temporanea. La proclamazione del non essere per scelta opposta al non essere per condanna divina.
Ho visto un uomo morire in treno e così proseguire il viaggio. Cavo dell'alta tensione: onde sulla panoramica quasi salata del tramonto.
Poi l'amore di Antinoo e Adriano.
I mie sentimenti, pur in primavera, non si svegliano ancora dal lungo letargo di Genova.

14 maggio 2008

Dall'estremo ieri all'estremo domani

Finalmente posso presentarvi il motivo di tanta assenza dai vostri blog (e dalla mia vita). Del Museo Guatelli ho già avuto modo di parlare (qui) e di descrivere l'amore puro che mi lega a questo luogo in cui è contenuta tutta la poesia, la pazzia, l'utopia di Ettore; un luogo in cui ognuno dei suoi 120.000 oggetti parla, racconta la fatica dell'uomo. Nello stesso casolare di campagna ho imparato a far sorridere i bimbi, a costruire con loro burattini, lavorare al telaio e con la creta, raccontare come fosse un gioco la favola del maestro Ettore, aprire ad una ad una le porte del museo aspettando ogni volta il loro "oooooh". Poi, grazie al laboratorio sul documentario di Francesco Merini, alla pazienza dei tecnici dello spazio cinema di Bologna (Véronique, Stefano, Mirella), a Cisco e ai Modena City Ramblers a cui abbiamo rubato la canzone (e che dobbiamo aggiungere ai titoli di coda), abbiamo potuto (io, Silvia Guidotti, Fabio Terra e Lucia Tralli) realizzare questo ricordo di Ettore che, finalmente, ho modo di condividere sul blog. Con l'emozione con cui l'abbiamo realizzato vi chiedo 13 minuti di pazienza e, soprattutto, un vostro giudizio. Un grazie infinito alla direzione del museo ma, soprattutto, agli intervistati: Gianni Guatelli (il cugino di Ettore), Donatella Canali (sua ex-alunna), Jessica Anelli (conservatore del museo). Tutte persone veramente eccezionali.

03 maggio 2008

Frammenti di Terre di Ponente


Entri in Liguria e il cielo azzurro si staglia lungo i profili montani carichi di ulivi, poi scivola a valle lungo le terrazze e le nuvole diventano onde. Nei borghi medievali uomini sporchi dal lavoro si salutano ancora a pugno chiuso e i bambini, abbracciati dai portici, giocano in piazza discretamente sorvegliati dalla comunità intera. Nei bar si consumano mazzi di carte fra cani golosi e ruffiani, i piccoli si arrampicano sugli sgabelli per arrivare a chiedere un gelato. Ci si prende a parole solo un pò. I gatti sonnecchiano dopo i pasti preparati dalle gattare, aprono appena un occhio di traverso per sbirciare minacciosi o preoccupati un turista. Gli occhi divorati dalla luce non riescono ad abituarsi alla penombra delle chiese, l'odore dell'incenso e una musica di violino si diffondono nelle strade. Le case hanno messo radici e le donne hanno steso i panni. In un terrazzino un cavallo a dondolo aspetta la fine della scuola accontentandosi del vento. I carruggi e i burroni, l'odore dell'olio nei frantoi che acquisisce diverse sfumature sul legno e sulla pietra. A Toirano un Piccolo museo etno-antropologico dove sono narrate leggende scritte a mano su un vecchio quaderno a righe, il terribile Buranco; a Dolce Acqua le bandiere rosse per il 1 Maggio; ad Apricale una coppia che vende libri e difende dalle pallonate oggetti resi nobili dal tempo e poster del cirque du bidon: tristi pagliacci in pensione; ai piedi di Bajardo il mondo intero, nelle sue strade gli anziani a tenersi compagnia, le osterie coi tavoli pieni di vino e di birra, a dominare il paese la chiesa distrutta dal terremoto del 1887: soffitto di cielo e pavimento d'erba, raggi di sole a decorare le pareti; a Cervo i vicoli a cadere sul mare, terrazzine sospese e negozietti per turisti. Conquistiamo Castelvecchio di Rocca Barbena affascinati dalle vie mascherate da cunicoli in pietra dove l'edera mangia pietra e finestre e le case s'inginocchiano al castello. Un uomo chiama dalla finestra suo figlio. A Borgo di Balestrino ci fermiamo a parlare con una donna talmente affezionata e triste per il suo paese abbandonato a seguito di una frana, da tornare a tagliare l'erba della sua piccola aiuola fra le macerie, con un falcettino arrugginito.
Ad Imperia un sorriso amico, tutta la gentilezza di ed che ci mostra la Foce e il Parasio fra un belìn e l'altro. La sensazione di stare con chi conosci da sempre in luoghi che ti viene voglia di abitare. Come avere Crêuza de mä negli occhi, sentirla negli organi interni.

Anche se le uniche foto possibili le hanno scattate gli occhi qui trovate qualche avanzo d'immagine... fino al prossimo viaggio.