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29 ottobre 2011

L'ultimo zingaro

Autunno tempo di scrittura. Elaboro strategie sempre più sottili per ritagliarmi angoli.
La casa è calduccia, Pablita dorme sul termosifone e quando la guardo ricambia la mia apprensione di mamma gatta lanciandomi un'occhiata a mezz'occhio "sono qui per il tuo e il mio piacere, sto bene e intanto che ci sono mi sto anche meritando la ciotola, ti pare?".
Ieri sono partita per Milano Rogoredo. Avendo di fronte a me un'oretta di autostrada mi sono messa comoda ben cacciata dentro ai miei stivaletti verdi pelosi nonostante i diciotto gradi (eh, ma io l'aspetto con ansia il vecchio dignitoso inverno e intanto mi preparo) e ho acceso l'autoradio sintonizzandomi su Radio Tre, emittente che, nonostante qualche caduta, mi ha più volte salvato la vita, sempre più spesso devastata dallo sgombro in scatola.
- Concerto di Klezmer - intervista alla direttrice della libreria delle donne di Milano - (al ritorno) concerto per ciabattino e bottaio -
Oltre lo spartitraffico ho sorriso al passaggio di due camion scassati degli "Jommi" che viaggiavano nella direzione opposta alla mia, che viaggiavano verso casa.
La destinazione del viaggio era il campo nomadi di Rogoredo.
Alyosha mi aspettava sorridente all'uscita della metropolitana, era una bella giornata di sole e avevamo da raccontarci più di quello che il tempo ci avrebbe concesso.
Non appena individuate le prime roulotte un simpaticissimo bastardino tutt'orecchi ha cominciato a correrci dietro segnalando a più non posso la nostra infrazione nel perimetro del campo.
Mentre noi, un po' spiazzati, ci chiedevamo dove dirigerci si è affacciata una signora, attirata dai lamenti del cagnolino, più spaventato che aggressivo.
Siamo così stati introdotti al vecchio patriarca.
L'ultimo zingaro indossava pantaloni a costine, una camicia a scacchi e un vecchio cappello sdrucito. Sulla tesa del cappello aveva una testa di cavallo di metallo, precisa visualizzazione dei suoi ricordi più cari.
Siamo stati in piedi per ore - di fronte al neonato Museo del viaggio intitolato alla memoria di Fabrizio De Andrè - ad ascoltarlo raccontare. Ogni mia singola sensazione si concentrava sul suono della sua voce, sulle sue pause di riflessione, mi è stato assolutamente impossibile l'uso - pure così essenziale in quel momento - del registratore vocale o, peggio, della macchina fotografica.
Non ho mai incontrato nessuno che fosse consapevole, come lui ha imparato ad esserlo non senza aver pagato il prezzo più caro, della propria identità.
Il signor Bezzecchi ci ha raccontato i suoi viaggi in carovana, le nottate in spiaggia a riscaldarsi vicini al falò (quando ancora il mare era loro), le lunghe gonne delle donne a portare la primavera nell'inverno delle città. La stessa gonna che adesso ha proibito d'indossare a sua moglie, accusata ingiustamente di furto in quanto riconosciuta come zingara.
Allo scomparire della civiltà contadina e con l'avvento dell'automobile non è più possibile essere zingari, se non in riserva, se non nel campo, nel piccolo campo, che i campi grandi sono ghetti di piccola delinquenza e disperazione.
Ai suoi tempi quando una carovana si fermava in un paese, il paese era protetto. I contadini ti davano da mangiare. Rubare era peccato, era proibito dalla legge severa del gruppo, è concesso rubare solo per fame.
Della donna si aveva la massima considerazione e i rapporti erano, nei fatti, paritari. Un rom difende tutte le donne, le zingare come le gadje. Fare un torto ad una donna era il crimine più grave che si potesse commettere e quello sanzionato con la massima durezza, dato che "la donna ragiona col cervello, ma l'uomo, si sa, ragiona col sesso".
Il signor Bezzecchi ha capito che i suoi figli non avrebbero più potuto essere zingari la prima volta che ha incrociato un guard-rail. Il cavallo si è impennato per la paura di trovarsi di fronte ad un oggetto sconosciuto, e per poco non sono stati investiti da un tir. Da quel momento in poi le tangenziali si sono moltiplicate, la velocità ha distrutto la lentezza, i vecchi mestieri artigiani sono scomparsi, non c'è più spazio per esseri zingari.
Suo zio è morto ad Auschwitz e suo padre dalla guerra non è più tornato.
A quel punto, tornato esso stesso dalla deportazione, ha preteso che tutti i suoi ragazzi, ben otto, trovassero un lavoro - perché in questa società se vuoi essere uno zingaro devi essere disposto a rubare, quindi non si può più essere zingari - ha cercato di mandarli via dal campo, ma tanti di loro sono rimasti, coi figli e i figli dei figli, condannati in una posizione liminale: non più zingari, mai accettati dai gadji. Una comunità solidale di una quarantina di persone, una grande famiglia. Un luogo in cui tornare e trovare protezione quando si perde il lavoro, quando si perde la casa, quando si perde la dignità. L'unico luogo veramente sicuro della periferia milanese.
Ho ascoltato rapita una storia di miseria, di razzismo, di sgomberi, di privazioni di ogni tipo, ma anche dell'ultima forma di libertà. Una storia che mi assomiglia, riflessa nei miei tratti somatici.
Di fronte alla resa, all'alzata di mani ho urlato al crimine, ho preteso il dovere della resistenza. Quando anche la cultura zingara sarà scomparsa non avremo più nulla che valga la pena di essere difeso se non riusciremo ad aprire fratture, a continuare a produrre sub-cultura, quella pasolinina, per intenderci senza allungare ulteriormente questo sfogo, senza voler condannare la dignità di un urlo a toni striduli, che possano infastidire qualcuno, uscire dai margini.
Il piccolo Museo è nato e ora prova ad alzarsi e a camminare. L'archivio (strano materiale scritto per una comunità di cultura orale), la carovana anni '50, gli amici che passano a portare un saluto, a vedere se possono dare una mano adesso che le cooperative gliele hanno chiuse.
Certo, il Museo stesso è la prova della resa, una sorta di mummificazione della cultura, una presa di coscienza del genocidio culturale. Ma è anche un tentativo di difesa del campo, della comunità, della famiglia; una risposta all'ignoranza, al razzismo, all'omologazione, al vuoto.

30 agosto 2011

Desiderio di cieli d'Irlanda (céad míle fáilte)


Galway - Irlanda, 26 agosto 2011

Pare impossibile da credere, ma è arrivato anche per me il momento di fare le valigie. Mi fermo a guardare la stanza irlandese in cui ho passato un mese della mia vita chiedendomi cosa mi aiuterebbe a rendere meno dolorosa la partenza, cosa potrei ancora infilare a forza nello spazio stracolmo dei ricordi, quanto sentimento mi resta per pagarne la sovrattassa al momento del check-in. Sulla scrivania rimangono le lettere, i disegni, le fotografie che mi sono state spedite dall'Italia: àncore fatte carta e inchiostro che mi richiamano - donna affacciata sull'oceano - al mio mare; l'ultima tazza di tè che ho - volutamente - dimenticato di riportare in cucina.
Lancio uno sguardo furtivo al cortile dove Bernadette e Christian stanno sfamando i gatti randagi; sì, sono parte della famiglia ormai (desiderio di estati più miti).
Scriverò cartoline per Natale? Penserò che anche in Irlanda bastano cinque centimetri di neve per mandare in panico il servizio pubblico di trasporti?
Domani avrò una lunga attesa all'aereoporto di Dublino.
Spero ci saranno ampie vetrate trasparenti per godere ancora degli incredibili cieli d'Irlanda.
Gli amici, le isole, i megaliti, gli insegnanti, le scogliere si sono presi ognuno una comoda tasca della valigia, senza chiedere permesso, sta a me ora infilarci anche il modo in cui questo paese si sta disfacendo: un amplesso dovuto alla voluttosità del tempo; la solitudine del percussionista; la voglia di stringersi l'uno all'altro nei vaporosi pub di Gallimh.

01 agosto 2011

"Mum, mum we are landing on the clouds!"

Con queste parole, pronunciate da una bimba affascinata dal volo e dai panorami vaporosi del cielo grigio d'Irlanda sono atterrata a Dublino. Le nuvole qui corrono talmente forte che verrebbe voglia di stare a guardarle per ore e ore. Squarci di blu intensissimo appaiono a volte a far da contrappunto ai verdi incredibili della campagna.
Due giorni nella capitale sono stati sufficienti a farmi innamorare dell'Irlanda e degli irlandesi. Tanti stereotipi si sono già infranti e, ora che sono arrivata a Galway, sulla costa atlantica, il desiderio di affacciarmi sull'oceano si fa sempre più forte.
Dublino, è quasi inutile dirlo, è una città piena di colori, musica, cultura. Per le sue strade sono passati scrittori e uomini di teatro del calibro di Joyce, George Bernard Shaw, Wilde, Beckett. Scopro di averli amati da profana, perché amarli nella loro terra d'origine assume un altro rilievo. Vi sono infiniti giardini e splendide corti in cui meditare, validissimi musei da esplorare. Dopo aver camminato per chilometri e chilometri lungo le vie del centro sono riuscita a trovar tempo per il Museum of Decorative arts & History (che ospitava un'interessantissima mostra sull'arte giapponese, nonchè un angolino etnografico), L'Irish Film Institute, L'Irish Museum of Modern Art e, grazie a Stefano, la biblioteca storica del Trinity College.
La cucina è ottima, sempre grazie a Stefano ho potuto assaggiare una bayles chocolate cheese cake che si è assicurata un posto eterno nella mia memoria gustativa. Realizzo solo ora che, pur avendo sangue nomade, non ero mai partita per l'estero da sola e tantomeno ero stata via così a lungo. Casa mi manca, ma in maniera strana: piuttosto che tornare vorrei portare casa qui, impacchettare tutti gli affetti, tutti gli oggetti, tutti i sapori, gli odori, i sorrisi e portarli a Galway almeno per un po'. Mi rendo conto che già pianifico come ritornare, se rimanere. Per cominciare spero che questo agosto non sia né troppo lungo, né troppo corto, ma per una volta a misura dei miei sentimenti che ho portato a scongelare al nord, data la mitezza della temperatura umana.

16 aprile 2011

Bozza intervento convegno sulla scrittura al femminile Assessorato alle pari opportunità - Comune di Morro d'Alba

Buongiorno a tutti, innanzitutto ringrazio gli organizzatori e in modo particolare l’Assessore Cingolani per avermi invitato a questo convegno che ritengo doppiamente importante visto che riguarda due argomenti che mi appassionano enormemente quali sono il racconto e la donna e, in particolare, la scrittura al femminile. E la ringrazio doppiamente, arrossendo un poco, per la qualifica di scrittrice della quale mi onora, decisamente esagerata per quanto riguarda la mia tutto sommato limitata (non solo in quantità - perlomeno quella resa pubblica - ma soprattutto in qualità) produzione narrativa. E la ringrazio per una terza volta perché, essendo impegnata in questo periodo nella redazione di un saggio utile all’attività didattica del corso dell’università di Bologna del quale mi occupo, avevo da diverso tempo trascurato il mio sempre insoddisfatto prurito di narrativa.
Avrei voluto inaugurare il mio discorso con la lettura di un passo di un meraviglioso saggio di Virginia Woolf il cui tema è assolutamente simile a quello che ci proponiamo di trattare oggi e la cui abilità di conferenziera è ben diversa dalla mia, ma mi prendo la libertà – e vi chiedo scusa per questa parentesi di tempo e attenzione che vi sto coscientemente rubando - di ricordare pubblicamente un amico scomparso poche ore fa in Palestina, un attivista dei diritti umani: Vittorio Arrigoni. Siate così clementi da non considerarla del tutto un’invasione di spazio, Vittorio era infatti prima di tutto un narratore, un narratore dell’inenarrabile. E la sua opera, la sua missione al servizio degli oppressi, può essere agevolmente riassunta con il titolo del suo ultimo libro: Restiamo Umani.

Ma passiamo, adesso, al tema del nostro incontro.

*[Stralcio tratto da Una stanza tutta per sé di Virginia Woolf]*
Ma insomma, potreste dire, ti avevamo chiesto di parlarci delle donne e il romanzo – cosa ha a che fare, questo, con una stanza tutta per sé? Tenterò di spiegarmi. Quando mi avete chiesto di parlarvi delle donne e il romanzo, sono andata a sedere sulla sponda di un fiume e ho cominciato a chiedermi che cosa volessero significare quelle parole. Avrebbero potuto semplicemente voler dire offrirvi alcune osservazioni su Fanny Burney; alcune altre su Jane Austen; un omaggio alle sorelle Brönte, con un ritratto della canonica di Haworth coperta di neve; forse alcune battute di spirito sulla Mitford; una allusione rispettosa a George Eliot; un riferimento alla Gaskell, e me la sarei cavata. […] Ma quando mi sono messa a considerare l’argomento […] ho dovuto presto rendermi conto del fatto che esso portava con sé un fatale risvolto negativo. Non sarei mai riuscita a raggiungere una conclusione. Non sarei mai stata in grado di adempiere quello che è, ne sono certa, il dovere primo di un conferenziere – consegnarvi, dopo un’ora di parole, un nocciolo di verità pura da serbare ripiegato tra le pagine del vostro quaderno d’appunti o da custodire per sempre sulla mensola del caminetto. La sola cosa che potevo fare era offrirvi un’opinione su un aspetto minore di questo argomento – se vuole scrivere romanzi una donna deve avere del denaro e una stanza tutta per sé.

Lo stesso quesito che ci poniamo noi oggi, il motivo che spinge l’essere umano a raccontare e che può essere rintracciato fino in quelli che sono i nostri assunti culturali di base (il mito, le figure archetipiche), declinato al femminile, è parte della richiesta che venne posta a Virginia Woolf in occasione di un convegno sulle scrittrici donne di romanzo. La geniale autrice ne tirò fuori un saggio (Una stanza tutta per sé) che è oggi una pietra miliare della rivendicazione femminile della parità fra i sessi e si inserisce all’interno di un movimento femminista maturo, consapevole della valenza differenziale dei sessi studiata in particolare in campo antropologico da un’allieva di Claude Lévi Strauss: Françoise Héritier. Il primo problema che si pone Virginia Woolf riguarda, infatti, il rapporto coercitivo sull’essere femminile da parte della società patriarcale, l’impossibilità della donna, fino al secolo scorso, di assumere autonomia – anche economica - ed essere considerata a tutti gli effetti individuo, condizioni di base della produzione artistica, fatte salve rare e stupefacenti eccezioni, destinata all’occhio e alla penna maschile: lo sguardo sulla realtà è, infatti, tutt’altro che asessuato. L’Héritier ci dimostra che la donna, in tutto il mondo, vive una situazione di inferiorità sul piano dei diritti rispetto all’uomo per una costruzione culturale che prende origine con l’espressione di una volontà di controllare la riproduzione da parte di coloro che non ne dispongono, il terrore maschile della partenogenesi. Addirittura l’inferiorità intellettuale femminile viene fatta risalire, persino da Aristotele, in un parallelismo fra idea creatrice e seme riproduttore, problema di flussi sanguigni. La saggista s’impegna a dimostrare che i sistemi di parentela sono manipolazioni simboliche del reale e tale assunto, tramite l’analisi delle società cosiddette primitive, si estende anche alla disparità fra i sessi, alla sterilità (in certe popolazioni la sterilità maschile non esiste) e addirittura alla filiazione (una saggia sentenza Samo recita: è la parola che fa la filiazione, è la parola che la sopprime ad intendere che tutto ciò che è tipicamente umano è fondato sul logos) dimostrando un primato del sociale sul biologico nelle società umane. Essendo il matrimonio uno dei tre costrutti fondamentali delle società umane – stato di cooperazione economica in cui le competenze reciproche non sono dettate da attitudini naturali, ma da convenzioni sociali – la possibilità del celibato, la certezza che la realizzazione della persona non passa necessariamente per una discendenza e dunque l’idea dell’indipendenza della donna è occorsa solo nella società moderna a seguito della nascita della nozione di individuo e non è casuale se il movimento di rivendicazione della donna degli anni ’70 si sia concentrato proprio sul diritto del pieno controllo sul proprio corpo.

Dunque, scrive la Woolf, la narrativa al femminile è così rara, prima del secolo scorso, perché le donne hanno avuto la funzione di specchi dal potere magico e delizioso di riflettere la figura dell’uomo ingrandita sino a due volte le sue dimensioni normali.

Siamo dunque alla necessità di avere 500 sterline all’anno, ora passiamo all’idea che sia necessaria una stanza tutta per sé.

È nota la storia di Melusina, essere mitico a metà fra una donna e un serpente (elemento di bestialità femminile presente persino nella Genesi) fondatrice della stirpe di Lusignano. Melusina, creduta donna “normale” dal compagno, discende da una società matriarcale e promette al suo uomo - reo di aver ucciso, seppure involontariamente, suo zio e per questo caduto in disgrazia - infinità felicità e ricchezza in cambio di un giorno alla settimana dedicato solo a se stessa sul quale il marito non dovrà mai indagare. Rivendica, insomma, l’appartarsi come un appartenersi. Il mito, infatti, fonda e sancisce le impossibilità umane. Ma, ben presto, il consorte di Melusina, pur reso ricco e felice dalla donna, non riesce più ad accettare questa minima limitazione del possesso sulla moglie e viola il patto attirando sulla sua famiglia una serie di disgrazie legate magicamente al suo vecchio delitto e sancendo simbolicamente l’unica possibilità di una femminilità addomesticata, tradotta oggi in immagini mass-mediatiche deprimenti. Lo stesso Gaston Bachelard, un filosofo d’approccio fenomenologico, analizza l’importanza dell’atto del rannicchiarsi come protezione della possibilità del pensare (per lui l’immagine della casa rappresenta la topografia del nostro essere intimo). La Woolf con questo si spiega l’impossibilità della donna di produrre cultura, la stanza tutta per sé protegge il sognatore, la casa è uno dei più potenti elementi di integrazione per i pensieri, i ricordi e i sogni, protegge l’intimità necessaria all’atto dello scrivere, addirittura rimodella l’essere umano che la abita. Noi ci possiamo espandere solo se ci appartiamo e per appartenerci abbiamo bisogno di avere uno spazio intimo, a nostra completa disposizione.

Ma perché si scrive? È forse impossibile rispondere a questa domanda, le teorie freudiane ci spiegano che si scrive per appagamento di un desiderio frustrato, io mi sento più vicina alle contemporanee e post-freudiane teorie di psicologia dell’arte che cercano di spiegarsi i motivi profondi della scrittura in un bisogno di riparazione, di scaricare una tensione ritenuta insopportabile. Credo che il bisogno di esprimersi faccia parte della stessa natura umana e compensi sempre un disagio dell’esistere. Considero la scrittura narrativa come un grido, come il pianto del bambino appena nato che, venuto a contatto con il mondo, ha bisogno di comunicare la sofferenza di un essere anfibio che impara a respirare catapultato in un mondo che sente estraneo, che imparerà a conoscere per mezzo della parola. Ed è su temi quali il rapporto fra generazioni, l’essenza del dolore, l’assenza di Dio, il rapporto con la morte e con la malattia, il tema della maternità che si concentra la mia scrittura che diviene una specie di autoanalisi su argomenti che sento pressanti e che mi rendo conto di non saper controllare appieno, che cerco di esternare per condividere col prossimo (gli altri: il vero senso della vita oltre l’eterno conflitto irrisolto fra scienza e religione per Ingmar Bergman) e per aiutare il processo di formazione della mia individualità. Ma, esternare la mia intimità mi è stato tanto difficile da non sapere, per lungo tempo, scrivere in prima persona o identificarmi in personaggi femminili, per i quali sentivo maggiore prossimità. Ed è proprio un’urgenza oserei dire fisiologica che mi porta a preferire le forme brevi: l’aforisma o il racconto, per sfogare tutto subito e aver poi modo di rivedere mille volte lo stile e procedere ad un processo di semplificazione. La parola rende determinato un dolore il cui peso nell’indeterminatezza risulta eccessivo, la parola ha funzione catalizzatrice, liberatrice. Liberazione che passa, innanzitutto, attraverso il gesto fisico della scrittura. Barthes, ne Il piacere del testo, meglio di chiunque altro affronta il segno come la traccia della nostra individualità e il prolungamento del nostro corpo, momento di coagulazione del nostro gioire e soffrire e momento universale di eterna variazione stilistica e grafica degli stessi temi archetipici.

Ma il racconto non è solo scrittura e non vorrei trascurare l’importanza dell’oralità (chi non ricorda con estrema commozione le fiabe della nonna), oralità che Platone, nella parte quinta del Fedro, considera addirittura superiore alla scrittura. Tale analisi viene riconsiderata da un platonico non misologo come Pier Paolo Pasolini che, per primo, intuisce l’importanza della scrittura come mezzo di riflessione di una parola che “si esternalizza” e, dunque, permette di riflettere sull’oralità stessa. Attraverso il suo amore per le forme dialettali lo scrittore friulano diviene il portavoce del grido delle ultime civiltà mitiche – fra cui la nostra civiltà contadina - distrutte dalla storia.
Per questo ho portato con me un video che testimonia un progetto di antropologia visuale che riguarda proprio il racconto al femminile in rapporto al tema del legame indissolubile fra cottura e cultura, condotto per conto della Fondazione Museo Ettore Guatelli e mostrato in occasione di un festival etnografico biennale ideato e voluto dall’ISRE (Istituto Superiore di studi Etnografici Sardo). Vi si trova condensato il senso del racconto prioritariamente come incontro, vi si intuisce la tonalità multicolore delle forme dialettali, il bisogno di raccontarsi radicato, in modo particolare, in donne chiuse in un panorama domestico. Ho intenzione, a questo punto, di lasciare la parola alle donne stesse, mi permetto solo di leggervi l’introduzione che scrissi a suo tempo in occasione della presentazione di questo progetto di ricerca, unicamente per farvi capire in che stato d’animo mi apprestavo a mostrare queste interviste, di cui vi ho portato gli esempi più lievi, per non infrangere un patto che prevede l’assoluto rispetto dell’altrui intimità.

La tazzina di caffè è ormai vuota, la donna che ho di fronte col cucchiaino ne sposta i granelli di zucchero sciolti a metà. Ci troviamo in cucina; dettagli discreti ne rivelano la vita recente: una macchia di grasso sui fornelli, un’aureola di calcare sul rubinetto, una briciola. Aspettiamo ansiose che parole speziate vadano a mescolarsi nel calderone della memoria condivisa il cui fuoco tentiamo di accendere; sul tavole allestiamo vassoi immaginari, quelli del servizio buono, aspettando di portare a tavola emozioni amalgamate a ricordo. C’è sempre un caffè galeotto a spezzare la ritrosia, a permettere il racconto in presenza di un mostro dall’occhio meccanico – la videocamera – che rischia di allungare le distanze. Devo propormi all’altrui femminile confidenza non solo come donna, ma anche come ricercatrice. E allora, da ricercatrice donna, occorre che io tenga conto dell’etica, dell’eredità che mi viene affidata, della menzogna dell’obiettività, del non-filmabile, della vita in campo e di quella che devo tenere necessariamente fuori campo. Nel menù del giorno vite in cucina, nostalgie della fame, peccati di gola.

*[Proiezione del video]*

*[Stralcio tratto da Una stanza tutta per sé di Virginia Woolf]*
Vi ho già detto, nel corso della mia conferenza, che Shakespeare aveva una sorella; ma voi non cercatela nella biografia del poeta scritta da Sir Sidney Lee. Lei morì giovane, e ahimè non scrisse neanche una parola. È sepolta là dove oggi si fermano gli autobus, di fronte alla stazione di Elephant and Castle. Ora, è mia ferma convinzione che questa poetessa che non scrisse mai una parola e fu seppellita nei pressi di un incrocio, è ancora viva. Vive in voi, e in me, e in molte altre donne che non sono qui stasera perché stanno lavando i piatti e mettendo a letto i bambini. Eppure lei è viva. Perché i grandi poeti non muoiono; essi sono presenze che rimangono; hanno bisogno di un’opportunità per tornare in mezzo a noi in carne ed ossa. E offrirle questa opportunità, a me sembra, comincia a dipendere da voi. Poiché io credo che se vivremo ancora un altro secolo – e mi riferisco qui alla vita comune, che è poi la vita vera e non alle piccole vite isolate che viviamo come individui – e se riusciremo, ciascuna di noi, ad avere cinquecento sterline l’anno e una stanza tutta per sé; se prenderemo l’abitudine alla libertà e il coraggio di scrivere esattamente ciò che pensiamo; se ci allontaneremo un poco dalla stanza di soggiorno comune e guarderemo gli esseri umani non sempre in rapporto l’uno all’altro ma in rapporto alla realtà; e così pure il cielo, e gli alberi, e qualunque altra cosa, allo stesso modo; se guarderemo oltre lo spauracchio di Milton, perché nessun essere umano deve precluderci la visuale; se guarderemo in faccia il fatto – perché è un fatto – che non c’è neanche un braccio al quale appoggiarci ma che dobbiamo camminare da sole e dobbiamo entrare in rapporto con il mondo della realtà e non soltanto con il mondo degli uomini e delle donne, allora si presenterà l’opportunità, e quella poetessa morta, che era sorella di Shakespeare, riprenderà quel corpo che tante volte ha dovuto abbandonare. Prendendo vita dalla vita di tutte le sconosciute che l’avevano preceduta, come suo fratello aveva fatto prima di lei, lei nascerà. Ma che lei possa nascere senza quella preparazione, senza quello sforzo da parte nostra, senza la precisa convinzione che una volta rinata le sarà possibile vivere e scrivere la sua poesia, è una cosa che davvero non possiamo aspettarci perché sarebbe impossibile. Ma io sono convinta che lei verrà, se lavoriamo per lei, e che lavorare così, anche se in povertà e nell’oscurità, vale certamente la pena.

Concludo non solo con un invito alla scrittura e alla lettura, ma anche con un invito a contrastare, tramite il racconto e quindi l’incontro, il predominio della tecnica, dell’efficienza, del profitto su ciò che di più profondamente umano esiste. E, per dirlo con le parole di una poetessa marchigiana – Maria Teresa Batosti – a ricercare il senso vero dell’essere donna: donne che si arricchiscono del confronto con la figura maschile, ma che “non sono né di Dio, né degli uomini”.