Google
 

30 novembre 2008

Notturno appena illuminato: prima prova da taccuino per disordinate impressioni.

Le luci del palco vestono la pelle; i movimenti del corpo non feriscono l'aria, ma i gesti si trasformano in parole - parole straniere che pretendono d'essere capite per comunanza - codificate dall'intera storia della cultura umana.
Il tempo stuprato dalla società contemporanea, attraverso il mimo e la temporalità costruita del cinema, acquisisce consapevolezza e inizia a respirare nel traffico.
D'improvviso è silenzio.
Il passo strisciato sulle assi di legno.
E poi, di nuovo, la voce umana. Una donna grida il suo tormento stratificato in secoli di canto. Col canto si avvicina l'aria alle labbra e beve, assetata.
Scattano gambe e mani in una corsa sfrenata a schiacciare fra le mani un'idea come un insetto. Si scambiano millenni di scrittura per un tratto di matita.
Esplode il gesto che libera il movimento, segno grafico di arti.
Una donna può cullare il vento mentre il figlio è concime per la terra.
Silenzio.
Una preghiera striscia e cammina.
Il solista danza sui tetti. La metropoli si sveglia.
Alba gelida: consapevolezza della vita sulla pelle.
Mangiarsi le cellule che rimangono fra i denti. Dipingere di luce e vernice rossa.
Applausi!
La guerra si toglie la maschera e fa un inchino.
Respiro. Buio. Respiro.
Dialogo fra silhouette di note, fra il vento e un crescendo di pensiero, fra ritmo e risacca, fra mani.
L'uomo nasce nella frattura dell'istante perfetto: nel difetto.
Un idiota. Un barcaiolo nuota nell'odore del tuo fiato.
La risacca con dita di sasso suona la battigia.
Luce nel mare, anche oggi non c'è tempesta.

In bilico al confine del palco, al confine della realtà. In equilibrio precario sul misticismo del silenzio. Colonizzazione del buio.

25 novembre 2008

Atti di fede

Ragionavo su diversi tipi di atti di fede:
quello di volare su un areo affidando la propria vita al pilota;
quello di guardare un film - in particolare un documentario - confidando, per la fiducia insita nella vocazione ontologica di riproducibilità del reale del mezzo fotografico, che quel mondo sullo schermo sia effettivamente fedele a quello in cui viviamo (e qui entra in gioco la politica);
quello di fare un salto: utopia del volo.


Mangio un altro biscotto poi torno a studiare, ma non è "mica" facile reprimere e reprimere in categorie tutta la vita che ho in mente
Forse ho già detto che io non credo in Dio, ma credo nel pensiero geometrico puro, da cui nasce la cultura.

19 novembre 2008

Interno - giorno e notte.

No, non scappo, vorrei, ma sono qua: un forte prurito di nostalgia narrativa mi solletica le vene e non basta a placarlo una curiosità intellettuale incontrollabile per l'antropologia visuale. E non so come gestire le inquadrature mediocri di mia nonna che, a ottant'anni, mi affida in eredità il suicidio di suo padre. Sono paralizzata nella condizione di aver filmato il mio personale e ancestrale non filmabile.

10 novembre 2008

Come quando ascolti il silenzio fra un battito del cuore e l'altro: il senso del tempo fra il Museo Cervi e Piazza Alimonda Giuliani.

Non sono poi tante le giornate della vita di un uomo in cui si è talmente emozionati da riuscire a concepire il silenzio del proprio corpo fra un battito del cuore e l'altro.
Immaginate di percorrere un buio sentiero di montagna e, proprio quando comincia a montare la disperazione della consapevolezza dell'essersi persi, scorgere d'improvviso all'orizzonte le luci di un paesino isolato. Due luci più forti delle altre a illuminare la piazza, tante finestre accese a fare da coro alle luci principali.
Come si può descrivere la commozione? Come si può, oltre che con un bacio sulla guancia, comunicare a parole la gratitudine, l'emozione, il gusto intenso di una lotta condivisa? Come si può, poi, tenere a bada la sensazione che ti scivola sulla pelle - fino a farti rizzare tutti i peli delle braccia - a sentire strati di sofferenza e di speranza nella profondità e nel tono di una voce, di un canto accompagnato da "quattro note"? Un dolore e una forza che, probabilmente, solo una donna può esprimere.
Sono atea, ma sabato 8 novembre ho ascoltato cantare Giovanna Marini e Patrizia Nasini al Museo Cervi come si ascolta una preghiera, anche se non ho saputo rispettarla e ho sentito l'esigenza di cantare (di recitarla) a mia volta, aggiungere voce su voce, lode e lamentazione.
Poi, siccome mi mancavano le parole, l'ho baciata. Quando mi sono alzata per andare a
ringraziarla per l'incredibile lavoro artistico, per la lotta di conservazione della storia orale, della storia degli ultimi, della memoria di Pasolini muore civilmente un paese che è capace di uccidere anche il suo Poeta, [proprio come ora che scrivo] mi sono mancate le parole e l'ho solo baciata.

Persi le forze mie persi l'ingegno
la morte mi è venuta a visitare
«e leva le gambe tue da questo regno»
persi le forze mie persi l'ingegno.

Le undici le volte che l'ho visto
gli vidi in faccia la mia gioventù
o Cristo me l'hai fatto un bel disgusto
le undici volte che l'ho visto.

Le undici e un quarto mi sento ferito
davanti agli occhi ho le mani spezzate
la lingua mi diceva «è andata è andata»
le undici e un quarto mi sento ferito.

Le undici e mezza mi sento morire
la lingua mi cercava le parole
e tutto mi diceva che non giova
le undici e mezza mi sento morire.

Mezzanotte m'ho da confessare
cerco perdono dalla madre mia
e questo è un dovere che ho da fare
mezzanotte m'ho da confessare.

Ma quella notte volevo parlare
la pioggia il fango e l'auto per scappare
solo a morire lì vicino al mare
ma quella notte volevo parlare
non può non può, può più parlare.


Lei mi ha sorriso e mi ha detto che si è accorta che [le canzoni] le sapevo tutte. E io, grazie alla sua lotta di resistenza, mi sono sentita una giovane ragazza privilegiata. Privilegiata per aver vissuto tanta passione attraverso la voce stratificata della storia in odore di sangue, sudore e terra e non di carta stampata.
Tutto ciò nella stessa sala in cui, tempo fa, con la mia famiglia, ho potuto ascoltare le testimonianze degli orrori delle stragi nazi-fasciste, solo finché il cuore e il fiato di chi raccontava sono stati in in grado di reggere al disumano. Il resto non si può descrivere e, solo per questo, noi non sapremo mai fino in fondo cos'è stato l'inferno.
Ieri pomeriggio, se foste passati per le strade di Genova, ci avreste potuto vedere seduti su una panchina di Piazza Alimonda. Ricordavo fin troppo bene quelle strade anche se la tentazione era quella di chiedere un'indicazione alle camionette di celerini che sfilavano verso lo stadio: "scusate, voi che la conoscete bene, sapreste indicarci la strada per Piazza Alimonda?" Il semaforo ha cambiato tante volte colore prima che ci decidessimo a riprendere il nostro cammino. Come Giovanna fa rivivere i canti di quei malfattori, noi volevamo intensamente che Carlo rivivesse in noi in quel preciso luogo, fra anziani signori davanti ai loro caffè, un extracomunitario che cercava di sopravvivere vendendo fazzoletti, alcuni piccioni, un edicolante indaffarato, la vita indifferente ad ogni tragedia. Non ci ero più tornata e mi aspettavo di vedere il tempo ancora immobilizzato, come nell'istante immediatamente successivo allo sparo.

Non capisco come il tempo possa non vergognarsi di scorrere ancora in Piazza Alimonda.

Anche se ora mi sembra decisamente un fatto minore, c'è stato un convegno molto interessante che ha animato la sala conferenze dell'archivio-biblioteca Emilio Sereni dove ho avuto il piacere di tenere in mano vecchi e meno vecchi volumi di storia contadina, soprattutto.
L'occasione era quella della biennale del paesaggio. Si è ragionato di paesaggio polisemico, stratificato. Mi è dispiaciuto constatare che Farinelli si è limitato - pur facendo filtrare parole come esche di riflessione - a fare da coordinatore. Si è partiti dalla distinzione importante dei termini: territorio con il suo senso politico, paesaggio con il suo senso estetico. A Emilio Sereni il debito della scoperta dell'agricoltura come arte del paesaggio, "panorama culturale". Ri-scoprire - fin dai poemi omerici - la vite come simbolo del genio umano e del passaggio, del confine, del limite fra natura e cultura. Saper leggere il tessuto narrativo del paesaggio dall'archeologia alla contemporaneità, sentirvi all'interno la propria testimonianza identitaria, auspicare la nascita a livello di massa del concetto di coscienza del luogo. Perché il paesaggio è innanzitutto memoria e solo chi non ha memoria non ha bisogno di tutelare il paesaggio: l'identità, il luogo di riproduzione della vita sociale. Asor Rosa, infine, si è riscoperto commosso a trovarsi in quel luogo per la prima volta. Per la prima volta?! È così che mi ha lasciato tanto amaro in bocca nel mettermi di nuovo di fronte alla consapevolezza dei grossi limiti non tanto del panorama culturale italiano come dice lui nascondendosi dietro una pagliuzza, quanto invece della nostra classe intellettuale.



Su flickr qualche foto di una giornata a Genova fra via del campo e il porto e l'installazione del prof. Mario Turci al Museo Guatelli. Spero di poter presto pubblicare uno stralcio del concerto anche qua sul blog.