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20 giugno 2015

Ci chiamano Ph.Ds


Alla fine il traguardo è arrivato e si è portato via di colpo le tante difficoltà incontrate lungo il percorso.
Insieme alla profonda emozione di essere in quell'aula, accanto ai grandi, mi è tornato addosso, improvviso e inaspettato, un profondo senso di appartenenza all'istituzione.
Lo stesso senso d'appartenenza, rispetto e soggezione che mi aveva mossa quando ho scelto di partire per questa impresa.
Scelta difficile che mi ha vista a un passo dalla borsa in altre università, ma decisa a voler rimanere nella mia anche senza.
Ho sofferto tanto, lavorato di più, dormito pochissimo, mi sono sentita inadeguata e impreparata, ma ho fatto del mio meglio, ho adorato la mia ricerca, gli studenti, i colleghi ora dottori e quelli ancora dottorandi, l'odore degli archivi, i sorrisi dei registi dimenticati di cui vorrei che fosse apprezzato il lavoro, i volti e le mani di vecchi contadini, la vocazione squisitamente etica degli antropologi e dei colleghi storici.
Ho imparato a non cedere alle difficoltà, ho rivisto i miei irremovibili rigidi principi, ho cercato di spingermi un po' più in là. Tutto quello che ho dato mi è stato restituito nelle due ore più intense della mia vita.
Pur fra grandi conflitti ho avuto Maestri, anche e soprattutto quelli che pretendono di non esserlo.
Non avrei mai creduto di farcela, ma adesso sono dottoressa di ricerca.
Con ogni probabilità non sarò mai una ricercatrice, ma dicono che ieri è stato sancito che ho imparato a fare quello che più avrei amato fare in assoluto nella vita (piccolo, immenso privilegio).
E infine, cosa non da meno, quando sono volati i cappelli ho recuperato anche la mia naturale leggerezza, gioia, voglia di vivere, progettare, costruire, imparare, capire, collaborare, essere d'aiuto con quel poco di competenze messe da parte.
Adesso chissà dove ci porterà tutti noi - strambi esseri votati all'Università e ai saperi - questra strada chiusa e la voglia infinita di ricominciare, anche a costo di mettersi a scavare.