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06 marzo 2016

Le nozze di Figaro

ATTO QUARTO
 

Scena IV


Recitativo

MARCELLINA
Presto avvertiam Susanna:
io la credo innocente: quella faccia,
quell'aria di modestia... è caso ancora
ch'ella non fosse... ah quando il cor non ciurma personale interesse,
ogni donna è portata alla difesa
del suo povero sesso,
da questi uomini ingrati a torto oppresso.

N. 25. Aria

MARCELLINA
Il capro e la capretta
son sempre in amistà,
l'agnello all'agnelletta
la guerra mai non fa.
Le più feroci belve
per selve e per campagne
lascian le lor compagne
in pace e libertà.
Sol noi povere femmine
che tanto amiam questi uomini,
trattate siam dai perfidi
ognor con crudeltà!
(parte)

24 settembre 2015

Francesco, giullare di Dio.

"Godi, fratello corpo"
[S. Francesco D'Assisi]

Innocenzo III dice a Francesco: "tu assomigli di più ad un porco che ad un uomo". Francesco corre a rotolarsi in un porcile e poi dice "Ora, però, ascoltami".


Le gerarchie ecclesiastiche lo hanno usato perchè serviva a ripulirsi e poi messo da parte.
Così la chiesa supera le crisi che la caratterizzano.

Nota: recuperare gli aspetti più scandalosamente folklorici o paradossali della tradizione francescana (giullare di Dio).

(Grazie Ginzburg)
[Folklore, magia, religione. Storia d'Italia, Einaudi. Volume I: I caratteri originali]

14 settembre 2015

I cavoli miei

Avvertenza: è una favola e va letta (obbligatoriamente) con la cadenza e il tono di voce dei bambini. Lo so che non è facile, però è semplice.


I cavoli miei.

La mia mamma mi ha raccontato che quando sono nato io, sono nato sotto un cavolo.
Quel giorno i lombrichi e le talpe aravano la terra insieme col trattore cingolato del mio papà.
Siccome sono nato sotto un cavolo, allora - a me - mi ha battezzato la pioggia.
I bambini nati sotto i cavoli diventano persone grandi molto diverse da quelle che sono state portate dalle cicogne: chi è nato sotto un cavolo vede il mondo dal basso verso l’alto.
Le cicogne, i deltaplani e gli elicotteri col telecomando sono cose da bambini ricchi.
Quelli atterrano, mentre gli aquiloni che costruisce il nonno decollano e quando si rompe il filo partono.
Ai bambini nati sotto i cavoli, il mondo sembra molto più grande ed è ancora tutto da esplorare, quindi sono molto più curiosi rispetto ai bambini che il mondo lo scoprono tutto in una volta, tutto insieme dall’alto.
Questo io l’ho detto alla mia mamma e lei - dopo - mi ha detto che si è finalmente spiegata il motivo per il quale sono sempre in mezzo come il cavolo.
La mia mamma dice anche che di bambini nati sotto un cavolo ne siamo una ciurma, perché di mamme che hanno fatto una cavolata ce ne sono tante in tutto il mondo: c’è chi è nato sotto un broccolo e si capisce - dice lei - che non possa essere troppo bravo a scuola e chi, invece, l’hanno trovato sotto le cime ed è tutta rapa.
Ecco perché esistono i cavoli neri e i cavoli cinesi o, per i bambini inglesi, i cavoli cappuccio.
Mia sorella, lei fa la smorfiosa e dice di essere nata sotto un cavolfiore.
Ma io non ci credo
E ho detto al maestro che il cavolo di mia sorella aveva gli afidi cerosi ed era tutto brutto quando è nata.
Lui viene dalla città e, invece di arrabbiarsi, ha sorriso. È stato contento, perché mi ha detto che gli ho insegnato una parola nuova e che ogni parola nuova che si impara e che si insegna è un piccolo atto di creazione - dice lui - che aggiunge un pezzettino di mondo al nostro mondo.
E così ha disegnato un pianeta con il gessetto bianco sulla lavagna nera e dentro ci ha scritto proprio “afidi cerosi”.
Il mio papà mi aveva detto, invece, che gli afidi cerosi sono una brutta cosa.
Ieri la mia mamma mi ha chiesto di raccontare al papà cosa facciamo a scuola, e quando io ho nominato gli afidi cerosi, lui si è arrabbiato tanto come se gli avessi detto una parolaccia. Adesso dice sempre che a scuola ci insegnano solo stupidaggini, ma a me - invece - piace pensare ai grossi pidocchi extraterrestri di gesso che conquistano i mondi neri della lavagna.
E così io ci penso e non glielo dico.
Ad accomunare bambini nati sotto cavoli diversi, c’è il fatto che vanno sempre in giro con i nonni e i nonni per non perderseli se li attaccano alla cintura. Così, quando i nonni si fermano a parlare con altri nonni, i bambini nati sotto i cavoli si perdono in mezzo ad una foresta di gambe. Invece, quelli portati dalla cicogna, il loro papà li tiene sempre in braccio, ma così non possono vedere il bar da sotto il tavolo del bar.
A guardare il bar da sotto il tavolo del bar, si può scoprire il mondo di noi bambini nati sotto i cavoli.
I bambini portati dalla cicogna, che stanno sempre in alto, loro non lo vedono e credono che esista solo il mondo visto dall’altezza delle persone grandi, ma non è così.
Il mondo sotto il tavolo è molto più popolato di quello sopra il tavolo - è lì, infatti, che si scontrano eserciti contrapposti di formiche e di molliche, spesso armati di puntine e forcine per capelli - e tutte le cose che ci si possono trovare, sono cose molto utili.
E poi, bisogna imparare a scavalcarle lì, le cose.
Insomma, ho capito che noi bambini nati sotto i cavoli passiamo molto tempo con il naso per aria - come dice la mamma - mentre quelli portati dalle cicogne il naso lo tengono sempre in basso.
Però, anche se siamo così diversi, io quando li incontro con quei bambini ci gioco insieme.
Finora ne conosco solo uno.
Mi ha detto che il suo papà lo manderà a studiare alla scuola dei piloti d’aeroplani e che lui ce l’ha un elicottero col telecomando.
Io non ci credevo e allora un giorno me l’ha fatto vedere.
Lui, mentre aspettava di farlo decollare, già pensava all’atterraggio (perché l’atterraggio è la fase più delicata, gliel’ha insegnato il suo papà).
Quel giorno ho capito che anche i bambini portati dalle cicogne sono capaci di guardare il mondo col naso all’insù, solo che di solito non lo fanno, perché non hanno tempo, devono rimanere concentrati sull’atterraggio.
Anche il mio papà non ha mai tempo, perché lavora tutto il giorno sul trattore cingolato.
Forse da grandi - esseri senza tempo, abituati a guardare il mondo dall’alto verso il basso - tutti dimentichiamo un po’ di guardare in su.
“Il tuo elicottero, però, non ci può arrivare fino alle stelle”.
Lui ha guardato in alto, valutando la possibilità di un atterraggio dalle stelle, ma non c’erano le stelle, perché era giorno.
C’erano le nuvole.

09 settembre 2015

Palestine Day by Day: A Beautiful Resistance.

Lo so, l'articolo è un po' lungo, ma aiutatemi ad adempiere una promessa.
Ho chiesto loro: "cosa si può fare per aiutarvi?"
E la risposta è stata "racconta la nostra storia, diventa ambasciatrice della nostra causa nel tuo paese".

Premessa
Un giorno qualunque di lavoro, primavera 2015.
Il mio contratto in ufficio è appena scaduto, ma ho ricevuto un paio di buone notizie: d'estate lavorerò con i bimbi di Legambiente e in autunno terrò un corso universitario.
La sopravvivenza in tempi di precarietà mi è garantita ancora per qualche mese.
Come mi capita sempre più spesso sono davanti al computer, mangio un boccone in piedi e passo da una finestra all'altra sul monitor per non rimanere focalizzata dodici ore al giorno sui materiali che sto preparando per un seminario universitario che non prevede neppure un rimborso.
Arriva un messaggio su facebook.
Mi scrive Paolo dell'Associazione di promozione sociale "A la Calle" di Rimini.
Ci conosciamo da diversi anni per motivi politici, ma non ci siamo mai frequentati.
Paolo mi chiede se gli organizzo un'iniziativa pubblica a Parma, cercano persone che abbiano voglia di partecipare alla loro "Carovana dei diritti": un viaggio in terra di Palestina.
Mi torna in mente il periodo in cui sostenevo attivamente la causa palestinese, appoggiando iniziative quali il boicottaggio dei prodotti israeliani, seguendo quotidianamente le attività portate avanti da singoli, ONG o associazioni a Gaza e in Cisgiordania.
Ricordo di essere andata al funerale di Vittorio Arrigoni, il discorso che ho tenuto per lui il 25 aprile di quell'anno e realizzo anche che da allora non mi sono più informata sulla situazione là.
Accetto immediatamente ad una sola condizione: devono portarmi con loro.

Partiamo il 16 agosto, dopo aver preparato una serie di documenti che certificano che la nostra presenza a Beit Sahour è dovuta al monitoraggio di un progetto di cooperazione chiamato "Tunes for peace". Lo ospitano al Palestinian Centre for Rapprochement between People.
http://www.rapprochement.org/
Per quanto possa sembrare assurdo, infatti, per arrivare in Palestina occorre passare attraverso severi controlli israeliani e l'accesso non è per niente scontato: si rischia di essere rimandati indietro.
Se il turismo di tipo dichiaratamente religioso è tollerato, la presenza di cooperanti e, più in generale, di internazionali su territorio israelo-palestinese non è gradita.

La notte fra il 16 e il 17 agosto la passiamo in un albergo a Istanbul.
Queste sono le mie prime impressioni sul mondo arabo, appuntate su un quaderno, mentre lasciavo la capitale turca alla volta di Tel Aviv e poi mi spostavo verso la Guest House che ci avrebbe ospitati.

In viaggio verso Beit Sahour, 17 agosto 2015
   Nei caffè turchi, anche quelli per turisti, i dervishi mantengono sempre un'aria di mistica concentrazione, un dito appena sollevato verso l'alto a far da vertice, il corpo un tramite perfetto fra la terra e il cielo. Le ragazze velate ridono e fumano narghilè, altri fanno le abluzioni prima di entrare in moschea. L'imam inizia prima dell'alba a cantare per mezzo di enormi megafoni in una sorta di continuità sodale fra tradizione e modernità.
Lasciata Istanbul alla volta di Tel Aviv mi sono trovata ai miei piedi i confini dell'Asia. L'aereo ospitava almeno tre delle grandi religioni monoteiste. Spiegato del progetto di cooperazione, superati i controlli e il primo check point lasciamo Tel Aviv per Gerusalemme e poi saliamo su un autobus pubblico palestinese.
L'impatto col muro è fortissimo. Bisogna scendere e passare i tornelli. Di là c'è un altro mondo.
Emozioni scomposte.
Realizzo a poco a poco dove sono e sono le informazioni e i dettagli apparentemente più banali a darmene la dimensione.




Al gate a Istanbul ricordo di aver visto delle donne vestite in un modo per me irriconoscibile. Era qualcosa a metà fra un abito contadino di metà Settecento localizzabile in qualche area irrangiungibile dell'Est Europa e un costume di carnevale. Gli uomini, vestiti di nero, in abito tradizionale, si erano allontanati e solo al loro ritorno ho potuto identificare la provenienza di quella famiglia: coloni.

Paolo e Marco, le nostre guide esperte, ci hanno organizzato due settimane molto intense per permetterci di prendere familiarità col territorio e con la cultura palestinese.
Ogni giorno incontriamo un paio di associazioni.
Il primo incontro è fissato nella sede dell'ARIJ, l'Applied Research Institute di Gerusalemme il cui scopo è monitorare la colonizzazione israeliana e le attività nei territori palestinesi occupati.
http://www.arij.org/
All'istituto ci danno conto della situazione generale, del piano israeliano di occupazione dei territori e in particolare del nuovo progetto di divisione della Cisgiordania e cambiamento demografico per mezzo di tre enormi corridoi di sicurezza, come pure delle violenze quotidiane perpretate a danno delle comunità palestinesi da coloni ed esercito.
Ci spiegano come nasce un outpost e in che modo si trasforma in colonia, ci parlano delle demolizioni di case.
Affiancano a questo puntuale lavoro di monitoraggio la descrizione dei molti progetti attivi.
In una città dove l'acqua è razionata a causa del controllo israeliano delle risorse, dove la popolazione (a maggioranza cattolica) è costretta a subire le violenze della colonia nata a pochi chilometri di distanza e in costante espansione e dove non esiste un servizio di raccolta dei rifiuti, all'ARIJ sviluppano l'agricoltura biologica, elaborano sistemi di coltivazione senza terra (qualcosa di simile all'idroponico), lavorano sul concetto di sostenibilità ambientale.
Intanto a Har Homa - la colonia grigia e a pianificazione urbanistica del tutto geometrica e razionale che spicca alle spalle di Mounif, che nel frattempo ci sta mostrando la verdura che producono - i coloni hanno villette con piscina, tutti i servizi, giardini e parchi per bambini.



Mounif dell'ARIJ
Il giorno seguente Marwa, una militante israliena che si batte per i diritti civili palestinesi, ci spiega cosa significa rifiutarsi di fare il servizio militare e la difficoltà di lottare contro la costruzione di parchi naturali e infrastrutture finalizzati alla realizzazione della "Grande Gerusalemme" e farne capire gli scopi alla società civile.
Lo stato israeliano, infatti, non essendo riuscito a risolvere il problema della presenza araba a Gerusalemme est tramite la costruzione del tristemente famoso muro, ha permesso la nascita di colonie tutto intorno alla città. Tali colonie vengono poi collegate con la città per tramite di strade a solo uso israeliano, a cui i palestinesi non possono accedere. In tal modo, continuando a costruire, le colonie diventano un tuttuno col tessuto cittadino principale e la residua comunità araba è accerchiata e inglobata all'interno di una megalopoli di proporzioni enormi.
Marwa ha fatto un anno di carcere e ha un volto serio e invecchiato, pur essendo una bellissima ragazza. I militanti come lei sono esclusi dalla comunità israeliana. Spesso vengono allontanati dalle famiglie, fanno fatica a trovare un lavoro o un appartamento in affitto.

20 agosto 2015
  Siamo in viaggio fra Beit Sahour e Ramallah su un vecchio furgone a otto posti noleggiato a Betlemme. Quello che i palestinesi chiamano "service", dato che il servizio di linea di autobus esiste solo nelle strade ad uso israeliano, dove ad ogni fermata ci sono due o tre militari armati a servizio, a "proteggere" i coloni.
Passiamo per Azarya, zona franca lasciata fuori dal muro i cui cittadini si rifiutano di pagare la tasse allo stato israeliano ed è diventata zona di ricettazione.
Fuori dalla colonia file di lavoratori arabi che chiedono un lavoro al caporalato ebreo.
Il paesaggio è caratterizzato da intere piantagioni di pini marittimi, che gli israeliani piantano al fine di evitare che i pastori palestinesi possano far pascolare pecore e capre e da un forte odore di diossina.
Un cartello rosso ci avverte che stiamo entrando in zona vietata dalla legge israeliana.
Niente foto o si rischiano problemi in aeroporto, al ritorno.
In realtà in questa zona non esiste neppure la microcriminalità. Mi sento sicura.

A Ramallah ci accoglie un'associazione che si occupa del supporto legale dei prigionieri palestinesi: Addameer.
 http://www.addameer.org/
Dal 1967 ad oggi più di 800.000 palestinesi sono stati detenuti nelle carceri israeliane, spesso senza capi d'imputazione. Il trasferimento nelle carceri israeliane è fra l'altro vietato dalla convenzione di Ginevra.
Li interrogano per 75 giorni, nessuna traduzione è prevista durante il processo, tengono le informazioni riservate, possono rinnovare di sei mesi in sei mesi la detenzione senza capi d'imputazione, anche i bambini vengono accusati e gli vengono fatte firmare dichiarazioni di colpevolezza per poter tornare a casa, la tortura è praticata e socialmente accettata in quanto "servirebbe a salvare altre vite umane". Le visite dei familiari sono difficoltose, spesso impossibili.
Ma il dato più spaventoso di tutti è quello che in inglese viene definito "medical neglect". 
Immaginate cosa significa negare le cure mediche ad un malato di cancro?
Si può essere incarcerati anche solo perchè si espone la bandiera della Palestina.
Quando la ragazza che ci spiega la situazione finisce di parlare, il suo volto incorniciato da una vetrata luminosa da cui riusciamo ad intravedere la città, ci chiede se abbiamo domande.
Dopo un momento di totale silenzio il suo volto serio si scioglie in un sorriso e ci dice che capisce che l'impatto emotivo possa essere forte.
Al campo profughi di Qaddura incontriamo anche le attiviste dell'Association of Women's Action for Training and Rehabilitation che si battono per i diritti delle donne.
www.aowa.ps
Se pensate che la Palestina è probabilmente il paese più avanzato del mondo arabo per ciò che riguarda i diritti delle donne, continuamente messi in discussione da ciò che accade a livello internazionale, capirete bene l'importanza del loro lavoro.
Al centro per disabili, intanto, hanno inventato una preghiera che consente a cattolici e musulmani di pregare insieme.

Visitiamo il museo di Mahmoud Darwish, il cui insegnamento nelle scuole è vietato dagli israeliani, ma la cui poesia rimane di un'incredibile e unica potenza espressiva e di una dolorosissima attualità.
Qualcuno ha scritto sul quaderno delle firme "I feel sad because Mahmoud died".
Davanti alla tomba di Arafat un pullman di bambini che cantano: sono venuti a porgere omaggio al Presidente. 
Il ritratto di Yasser è appeso in moltissime case e, per quanto i palestinesi siano a lui legati da profondo affetto, credono che gli accordi di Oslo siano stati la fine di ogni speranza. 
Nessuno più crede alla soluzione "due popoli, due stati".

Nel frattempo la gioiosa confusione dei mercati arabi, la sregolatezza nella guida, il senso profondissimo della solidarità sociale, dell'identità tradizionale, della comunità ci convince che assomigliamo straordinariamente a questo popolo così sofferente, eppure così vitale.


Entrando al campo proughi di Aida, quello che colpisce è la grande chiave a decorazione dell'ingresso. Impariamo in seguito che i profughi hanno conservato le chiavi delle case da cui sono stati cacciati via e reclamano ancora il diritto al ritorno.
Al centro culturale Alrowwad si occupano di quella che loro chiamano "Beautiful Resistance", hanno una ludoteca, una biblioteca, un piccolo teatro e stanno allestendo un museo etnografico.
 http://www.alrowwad.org/en/

   
21 agosto 2015
  Nei campi profughi conservano ancora le chiavi delle case da cui sono stati cacciati.
A tenerle in mano pesano, scottano.
Gli anziani ricordano il profumo particolare che aveva la menta e la salvia di casa loro.
Oltre alle chiavi conservano proiettili progettati per esplodere solo una volta penetrati nella carne, i contenitori dei lacrimogeni - a centinaia - diventano vasi, decorazioni.
Dovunque capiti, che sia la sede di un'associazione o una grigliata fra amici, tutti hanno una storia tremenda alle spalle e qualche caro in prigione.
Eppure ci si batte per i diritti delle donne, si aprono ludoteche per far respirare ai bambini qualche minuto di pace (che la violenza quotidiana indurisce), il muro si trasforma in un cineforum.
La chiamano "Beautiful Resistance".
A proposito di scontro di civiltà: quando avremo capito quant'è importante per gli equilibri mondiali questo fazzoletto di terra sarà ormai troppo tardi.
Maledetto sia chi fa di tutta un'erba un fascio.


In un solo chilometro quadrato sono ammassate seimila persone. La disoccupazione è al 49%. Case sono cresciute dove prima erano solo tende, per cui gli spazi sono ridottissimi. Due famiglie vivono in ogni stanza, possiedono un bagno per ogni quartiere. I soldati israeliani se devono prelevare qualcuno non si azzardano a passare negli stretti vicoli, ma abbattono le costruzioni spianandosi il passaggio fino alla destinazione a cui sono interessati.
La ragazza che ci spiega la situazione dice di aver avuto per la prima volta coscienza del fatto che gli israeliani non miravano ai terroristi, ma a tutti i paestinesi, quando hanno attaccato la sua scuola. Gerusalemme è a pochi chilometri da lì, ma lei vi è stata solo nel 2012 e solo grazie ad un permesso speciale ottenuto per tramite di un'ONG.

A Nablus i bambini ci salutano dalle finestre e tutti ci invitano a visitare le botteghe artigiane: la piccola economia locale produce sapone d'olio d'oliva, buste di ceci zuccherati.
Nei bazar assaggiamo le spezie, compriamo il caffè arabo, ci lasciamo affascinare dai mucchi di merce accatastati un po' ovunque. 




Il centro storico, punteggiato di lapidi a ricordo degli uccisi e dei nomi dei paesi da cui sono dovuti scappare, è di grande valore artistico-culturale.

Nel campo profughi di Jenin incontriamo la situazione più dura. 
Vi opera il Freedom Theatre.
http://www.thefreedomtheatre.org/
Il teatro, oltre che allontanare i ragazzi dall'orrore di un'occupazione militare quotitidiana per tramite della cultura, serve anche da cura per chi soffre le gravi conseguenze psicologiche della violenza subita o, peggio, abbattutasi sui familiari.
Sono consapevoli di non essere occupati solo politicamente ed economicamente, ma anche culturalmente.
Il ragazzo che ci accoglie ha chiaro che la strategia politica degli occupanti intende dividere i palestinesi, grazie al miraggio del benessere che offrono le città israeliane (dove tuttavia la condizione degli arabi è anche più dura di quella che vivono in Palestina: una situazione di vero apartheid).
Qualcuno provocatoriamente gli chiede se non preferirebbe vivere in una città con acqua corrente.
Risponde che sì, gli piacerebbe tornare a vivere come prima dell'occupazione.

All'ingresso del campo profughi un cavallo realizzato con i pezzi di lamiera delle ambulanze fatte esplodere dall'esercito.
23 agosto 2015.
  Oggi per la prima volta in vita mia ho visto la povertà. 
Eppure tutti ci invitano a cena, persino il taxista.
Ora sto viaggiando dentro il bagagliaio di una macchina e sono contenta, persino commossa.

Hebron è una città divisa non solo per quartieri, ma persino una strada può essere tagliata a metà.
I coloni si appropriano dei piani alti delle case e buttano immondizia e pietre sul mercato arabo, di sotto.
I palestinesi sono costretti a mettere grate alle finestre. Andare a prendere l'acqua sul tetto può costare la vita. Si vive in perenne stato d'assedio.
Ve la ricordavate questa foto? Era stata scattata qui.




Nonostante questa situazione Al Rehabilitation Committee ricostruiscono le case demolite rispettando gli antichi sistemi di costruzione.
http://www.hebronrc.ps/index.php/en/
Non posso sopportare l'idea che la nostra guida palestinese non possa procedere lungo una strada della sua città e che noi, grazie ai nostri passaporti internazionali, pur essendo stranieri, possiamo invece attraversare il check point che conduce alla colonia, al quartiere successivo.

Il giorno dopo c'è anche lo spazio per essere orgogliosi e emozionarsi per un pezzo d'Italia in terra palestinese.
http://tuwaniresiste.operazionecolomba.it/
Visitiamo il villaggio di At-Tuwani, tristemente famoso perchè i coloni spararono sui bambini palestinesi che andavano a scuola. Intervennero allora gli internazionali, offrendosi di fare da scudo umano. Le violenze perpetrate sugli internazionali riuscirono a far muovere l'opinione pubblica.
Da allora lì opera l'Operazione Colomba.
Un presidio squisitamente italiano in un villaggio di pastori.
I ragazzi, armati solo di videocamera e passaporto, continuano a garantire ai bimbi un accesso sicuro alla strada, accompagnano i pastori al pascolo dovendo subire quotidianamente le violenze dei coloni rispondendo solo ed esclusivamente con pratiche di non violenza.
E questo impegno assiduo, questa presenza costante ha garantito ad At-Tuwani il riconoscimento di un piano regolatore e conseguentemente il blocco delle demolizioni.
Chiedo a Sara cosa si fa quando un colono ti punta una pistola alla testa, come è successo a lei.
Risponde che non si deve fare assolutamente nulla, ma ci si limita a cercare di intercettare il suo sguardo.
Qualsiasi cosa succeda è il pastore che decide il da farsi, si rimane con lui.
Nessuno è mai riuscito a parlare con un colono. A volte l'unica speranza è da riporre nei soldati, altrettanto violenti, ma fra cui ogni tanto capita qualche ragazzino che sta svolgendo il servizio militare solo perché obbligato.
Il senso della solidarietà palestinese è talmente forte che ora si cerca di estendere il modello ai paesi circostanti, fra cui Susya dove la situazione è ancora più tragica, ma per far questo c'è bisogno di volontari.





Situazione simile vivono i beduini del Negev.
Andiamo ad Al Araqib dopo aver conosciuto Silvia Boarini e Linda Paganelli, che stanno lavorando su un documentario lì ambientato e intitolato "Blooming the desert".
Arriviamo un'ora dopo l'ottantottesima demolizione.
Per loro "Resistere è esistere". Legati a strettissimo filo con la loro terra, i beduini hanno deciso che non se ne andranno mai. Dopo che il loro villaggio è stato distrutto restano a difendere il loro cimitero, a rivendicare il loro diritto di rimanere. 
Seduti tutti intorno ad un vecchio salice in mezzo al deserto, ci offrono tè alla menta, battaglia e disperazione.
Sono convinti che riusciranno a rimanere un minuto in più dei loro nemici. Chi è alleato con Isarele è loro nemico. La comunità scappata in città li sostiene.
http://silviaboarini.com/UnrecognizedintheNegev.html


Anche gli arabi israeliani non se la passano bene.
Ce lo raccontano ad Haifa i ragazzi di Baladna, un'associazione per i giovani.
http://www.momken.org/?mod=cat&ID=24
Fra le loro molte attività inventano ritorni immaginari per i profughi nei villaggi d'origine, creano extracurricula nelle scuole per insegnare la letteratura palestinese, propongono usi alternativi dei social media.

In Israele costruiscono dappertutto, quello che rimane negli occhi è il profilo infinito di gru in azione contro l'orizzonte.
Gli alberi che piantano nel deserto si coprono, tetramente, di polvere bianca.

Infine il professor Mazin Qumsiyeh - professore di Yale e Duke prima di Betlemme - ci spiega che anche la biodiversità è a rischio a seguito dell'occupazione israeliana, mentre la società tradizionale viveva in armonia con la natura.
Anche lui non può trattenere le lacrime quando parla di una sua collega uccisa dall'esercito.
Infatti muoversi per il territorio palestinese significa essere soggetti a continue vessazioni, impiegare ore e ore per far pochi chilometri, non essere liberi negli spostamenti.
Nonostante il passapoporto americano, gli è negato l'accesso a Gerusalemme.
Eppure cerca di coinvolgere i ragazzi, farli collaborare nella costituzione del Museo di storia naturale palestinese.
https://www.youtube.com/watch?v=APxvAZh8qrQ
Se si vuol essere informati sulle loro attività, così come sulla situazione di privazione dei diritti umani più generale gli si può chiedere di iscriversi alla sua newsletter: mazin@qumsiyeh.org

27 agosto 2015
  Ultimo giorno a Beit Sahour e l'impressione è quella di tornare a casa partendo da casa.
Già mi logoro di nostalgia.
Come potrei mai dimenticare la rabbia e il dolore composti dei vecchi pastori e beduini che resistono all'abbattimento delle case ("la terra è la mia identità, resisto per esistere"), il bimbo che muove la manina della sorellina piccola per salutarci, il sapore di un tè alla menta offerto anche se non ti rimane niente?

Scatto una foto ad un'altra bimba che mi guarda curiosa da dietro una grata.
Come potrei dimenticare la bellezza del deserto e del paesaggio, il senso assoluto dell'ospitalità palestinese, l'idea di aver ritrovato quello spirito comunitario che da noi non esiste più e qua invece esiste eccome, pur essendo loro segregati, aggrediti da soldati e coloni, minacciati persino da una "modernità forzata"?
Qua portano avanti le battaglie più avanzate che in Italia riusciamo solo a proporre.
Parto con una sensazione amaro dolciastra in bocca e l'intenzione di voler fare a tutti i costi quel poco che si può fare per questa splendida terra.


A tutti prometto di raccontare. E di tornare.

Sostenete la campagna di boicottaggio dei prodotti israeliani, i palestinesi dicono che ha effetti concreti.
http://www.bdsmovement.net/

20 giugno 2015

Ci chiamano Ph.Ds


Alla fine il traguardo è arrivato e si è portato via di colpo le tante difficoltà incontrate lungo il percorso.
Insieme alla profonda emozione di essere in quell'aula, accanto ai grandi, mi è tornato addosso, improvviso e inaspettato, un profondo senso di appartenenza all'istituzione.
Lo stesso senso d'appartenenza, rispetto e soggezione che mi aveva mossa quando ho scelto di partire per questa impresa.
Scelta difficile che mi ha vista a un passo dalla borsa in altre università, ma decisa a voler rimanere nella mia anche senza.
Ho sofferto tanto, lavorato di più, dormito pochissimo, mi sono sentita inadeguata e impreparata, ma ho fatto del mio meglio, ho adorato la mia ricerca, gli studenti, i colleghi ora dottori e quelli ancora dottorandi, l'odore degli archivi, i sorrisi dei registi dimenticati di cui vorrei che fosse apprezzato il lavoro, i volti e le mani di vecchi contadini, la vocazione squisitamente etica degli antropologi e dei colleghi storici.
Ho imparato a non cedere alle difficoltà, ho rivisto i miei irremovibili rigidi principi, ho cercato di spingermi un po' più in là. Tutto quello che ho dato mi è stato restituito nelle due ore più intense della mia vita.
Pur fra grandi conflitti ho avuto Maestri, anche e soprattutto quelli che pretendono di non esserlo.
Non avrei mai creduto di farcela, ma adesso sono dottoressa di ricerca.
Con ogni probabilità non sarò mai una ricercatrice, ma dicono che ieri è stato sancito che ho imparato a fare quello che più avrei amato fare in assoluto nella vita (piccolo, immenso privilegio).
E infine, cosa non da meno, quando sono volati i cappelli ho recuperato anche la mia naturale leggerezza, gioia, voglia di vivere, progettare, costruire, imparare, capire, collaborare, essere d'aiuto con quel poco di competenze messe da parte.
Adesso chissà dove ci porterà tutti noi - strambi esseri votati all'Università e ai saperi - questra strada chiusa e la voglia infinita di ricominciare, anche a costo di mettersi a scavare.

01 marzo 2015

Ieri notte, in stazione a Bologna

L'uomo delle informazioni aspettava che passasse la notte sotto un tabellone senza informazioni, per tre euro all'ora, contro il profilo dello squarcio di trentacinque anni fa, in mezzo alla puzza di gasolio della "macchina movimenti".
Manganello alla mano poliziotti incattiviti a urlare addosso a me, che stavo inutilmente tentando di fare un biglietto inutile in mezzo ad un inutile sottobosco di macchinette automatiche e a cacciare gente accampata, che non bastavano tutte le sedie della sala d'aspetto ad accoglierli tutti.
Che cazzo sta succendendo anche a questa città?
E che cazzo ci faceva lì in mezzo un giapponese con un cappellino della Ferrari che i barboni, da sotto le coperte, avevano cominciato a chiamare "uomo di mondo", intonandogli addosso "Roma nun fa' la stupida stasera..."?
E la ragazza che mi si è attaccata pure addosso, perchè aveva paura di aspettare lì dentro o lì fuori i venticinque minuti di ritardo dell'ultimo treno della notte, dove andava?
Magari era lì soltanto ad aspettare marzo, come me.

01 febbraio 2015

Il senso delle parole (o delle cose)

Un pochino angosciata dalla rapidità con la quale una domenica si sostituisce all'altra, ma non abbastanza da farmi rinunciare alla solita carrellata settimanale di quotidiani - quelli che macchiano le dita di uno schifoso inchiostro e vanno poi ad ingombrare la differenziata - oggi trattengo a modo mio un trafiletto sull'importanza delle parole.
"Algoritmo", "algebra", "liuto", "altair, zenit e nadir", sono stelle, sono strumenti musicali, sono concetti matematici o astrologici, ma sono anche parole arabe.
Oggi una delle poche parole arabe che riconosciamo come tali è "jihad", che però non significa come crediamo noi o come ci fanno credere da una parte e dall'altra "guerra santa", ma piuttosto "sforzo interiore di essere buoni credenti".
A cambiare il senso delle parole, come hanno spiegato eminenti linguisti ed epistemologi, si rischia di cambiare il senso delle cose; un po' come si rischia di cambiare per sempre la fisiologia di un paesaggio a suon di bombe (o di abusi).
Il problema è che poi, nonostante tutti gli sforzi degli attivisti o degli etimologi, è dura tornare al senso originario delle parole (o delle cose).

22 marzo 2014

Homemovies 1985/1991

Le innumerevoli lettere che mi mancavano da bimba (la "S" è ancora dispersa), i nonni, le macchine con le targhe delle province, le tute e l'abbigliamento post-sovietico, l'infiorata per la processione di maggio di Monterubbiano, i videogiochi con l'MSX DOS, il Ducato FIAT con le tendine sui finestrini (il nostro camper dei poveri), i mitici "bungalow" (pronunciati all'italiana), la polenta "spianata" sulla tavola di legno che serviva da piatto comune.
Che sensazione incredibile aver ritrovato questi filmini, loro salvi, nonostante gli anni, dalla disgregazione, noi un po' meno.



28 novembre 2013

A casa del micio

Una coppia di amici mi invitano a condividere con loro una zuppa di fagioli e una chiacchierata proprio di quelle lì, di quelle che capitano raramente.
Poi Ivano mi proprone di scrivere un articolo per il suo blog, per il suo progetto culturale e allora, nelle ore piccole, scrivo di getto a proposito di uno degli incontri della mia vita.
Così ne approfitto per segnalarvi il blog La nottola di Minerva. E vi linko A casa del micio.
Come dicevo in altra sede a chi non conosce la Lega di cultura di Piadena peste lo colga!

19 ottobre 2013

Autunno, tempo di scrittura [2]

Fuori c'è la nebbia e dentro, dentro c'è un bicchiere di bianco di troppo.
Ma soprattutto è autunno.
In giornate d'autunno come questa capita che un amico ti scriva da lontanto parole dense e così, oggi come allora, la pagina bianca ritorna il contenitore di tutto quel vivere che non si trova il modo - o il coraggio? - di sfogare altrimenti.
Fuori i cachi, le castagne, l'odore di pioggia sugli abiti umidi, i comignoli accesi fra gli ultimi coppi in cotto e dentro, dentro la paura di essere sola che a poco a poco svanisce.
Due traslochi, quaranta scatole di libri e una separazione e mezzo.
Fuori un piccolo monolocale che, a poco a poco, comincia ad assomigliarmi dentro.

16 gennaio 2013

Nuie simme 'a mamma d'a' bellezza / nun simme né trifugghie e neanche avezza. Ernesto De Martino *Note lucane*

Dopo il mio incontro con gli uomini della Rabata, ho riflettuto che non c'era soltanto un problema loro, il problema della loro emancipazione, ma c'era anche il problema mio, il problema dell'intellettuale piccolo borghese del Mezzogiorno, con una certa tradizione culturale e una certa "civiltà" assorbita nella scuola, e che si incontrava con questi uomini ed era costretto per ciò stesso a un esame di coscienza, a diventare per così dire l'etnologo di se stesso. Dinanzi alla "rovina" della Rabata tricaricense, dinanzi a tanta storia sconosciuta che si consuma in muto racconto, mentre su di voi si leva lo sguardo dolente dei bambini rabatani, io ho provato un sentimento complesso al quale cercherò di dare un lume razionale. Certamente questo mio sentimento non è l'antica pietà cristiana, anche se in me, come figlio della storia, la pietà cristiana non può essere passata invano. Il sentimento che realmente provo è anzitutto un angoscioso senso di colpa. Dinanzi a questi esseri mantenuti a livello delle bestie malgrado la loro aspirazione a diventare uomini, io - personalmente io intellettuale piccolo borghese del Mezzogiorno - mi sento in colpa. Altri, forse, ravviserà nel fondo di questa situazione una testimonianza del peccato originale: si libererà così del peso di un'analisi incomoda, trasfigurando in cielo la responsabilità interamente umana di questa condizione umana. Ma io trovo qui solo la responsabilità della mia colpa, non della colpa. Io non sono libero perché costoro non sono liberi, io non sono emancipato perché costoro sono in catene. Se la democrazia borghese ha permesso a me di non essere come loro, ma di nutrirmi e di vestirmi relativamente a mio agio, e di fruire delle libertà costituzionali, questo ha una importanza trascurabile: perché non si tratta di me, del sordido me gonfio di orgoglio, ma del me concretamente vivente, che insieme a tutti nella storia sta e insieme a tutti nella storia cade. Io provo anzi vergogna del permesso concessomi di non essere come loro, e quasi mi sembra di avere rubato solo per me ciò che appartiene anche a loro. O più esattamente: provo vergogna di aver io consentito che questa concessione immonda mi fosse fatta, di aver lasciato per lungo tempo che la società esercitasse su di me tutte le sue arti per rendermi "libero" a questo prezzo, e di aver tanto poco visto l'inganno da mostrare persino di gradirlo, compiacendomi anzi di civettare con la "dignità della persona umana" al modo che la intendono coloro che "fanno gli intelligenti" (...Voi che fate l'intelligente non capite proprio niente...). Proseguendo nell'analisi, scopro che al senso di colpa si associa un altro momento: la collera, la grande collera storica solennemente dispiegantesi dal fondo più autentico del proprio essere. Misuro qui la distanza che mi separa dal cristianesimo, che è essenzialmente odio del peccato, salvezza sacramentale della storia vulnerata dal peccato, mentre la mia collera è tutta storica perché tutta storica è la mia colpa (come anche la colpa del gruppo sociale al quale appartengo). La mia collera non può avere proprio nessuno sfogo sacramentale, nessun compenso liturgico, è amore cristiano ma rovesciato, amputato di ogni prolungamento teologico e costretto finalmente a camminare con i piedi. Appunto per questo suo carattere storico, la mia collera è proprio la stessa di questi uomini che lottano per uscire dalle tenebre del quartiere rabatano, e la mia lotta è proprio la loro lotta. Rendo grazie al quartiere rabatano e ai suoi uomini per avermi aiutato a capire meglio me stesso e il mio compito.
[...]  due storie per lungo tempo diverse e indipendenti compiono i primi tentativi per diventare una sola comune umana storia. È difficile e comporta tutta una serie di brucianti umiliazioni, riprendere il colloquio tra due umanità che lo hanno da tempo interrotto. Mi umilia questo dover abbassare uomini a me contemporanei, anzi cittadini della mia patria, a oggetti di ricerca scientifica, e quasi di esperimento. Mi umilia essere scambiato, come è accaduto, per agente delle tasse o per un impresario venuto in Lucania a fare incetta di suonatori e di cantanti. Mi umilia l'aver dovuto, in certi paesi, rinunziare ad aver rapporti con i comunisti e l'aver talora simulato con loro, altrimenti un tal parroco non mi avrebbe detto certe cose che mi stava a cuore sapere. I marescialli dei carabinieri mi guardano con sospetto, e mi chiedono che cosa sia venuto a fare, e chi sono i miei amici, e chi "ci manda": rispondo che siamo una spedizione etnologica venuta per raccogliere canti popolari, scongiuri e lamenti funebri. È forse la prima volta che un uomo dice loro la verità, ma non mi credono. E anche questo mi umilia.

02 settembre 2012

Tornata a casa, tutto da rifare.

Sei settimane a Bath (UK) non sono semplici da raccontare.
Non so cosa succeda a voi, ma io, ogni volta che torno da un viaggio, sento di aver vissuto.
Il legame con Bath, comunque, mi sembra essere stato particolarmente forte.
Sarà perchè sono partita in condizioni drammatiche e non vedevo altra strada di fronte a me che non fosse la possibilità di partire. E non si trattava dell'ennesima sfida che pone la vita, era come se il filo del mio destino che finora, seppure a zig zag e in maniera disordinatissima, mi sembrava di essere sempre riuscita a seguire, si fosse spezzato.
Ho preso quell'areo con trentotto e mezzo di pura angoscia e la prima settimana non ho mai smesso di pensare che lasciare il dottorato - per i tanti problemi incontrati nel mondo accademico e per ipersensibilità congenita latente - sarebbe stato come "suicidare un sogno".
Adesso sono a casa e c'è tutto da rifare (con un flebile punto interrogativo da sciogliere in settimana).
Per (ri)cominciare, dunque, ci sono innanzitutto le sei settimane a Bath da raccontare.

A Bath ci sono Janet e Roger e da Janet c'è il suo giardino.

7 agosto 2012 I went back home on foot despite the rain to taste the flavor of a british summer and to feel body tiredness. English people seated on the benches the same and I enjoyed my walk across the Victoria park. Janet is now singing songs of the sixties and cooking polenta for me because I told her that this food is related with my dearest memories.
12 agosto 2012 The sun shines after a storm. Janet gardens every sunday; She has orchids and peonies, she has cosmos, zinnias and wild flowers. The passenger pigeons rest in her garden during their trip. We ate biscuits togheter, we chatted about our childhood. Having not a good english could be nice if you were able to speak with your eyes and with your hands. Knowing not the cities where you live would be perfect if you asked someone to take you in the places they love.
A Bath ci sono poi Daniel, Olga, Elizaveta, Merve, Ashe, Paula, Teresa, Léa, Cecilia, Jacopo, Paola e tutti gli altri.
A Bath c'è il capitano: Michael. Una di quelle rare persone che sono tutte per gli altri, di opinioni limpide e interessi coraggiosi, oltre che uno splendido insegnante.
Non so spiegare quanto le persone che ho incontrato siano state capaci di ridarmi un briciolo di fidicia in me stessa e farmi sentire di nuovo serena e piena d'entusiasmo. E oltre alle persone e agli incontri casuali - difficile dimenticare il gallese emigrato in Austrialia incontrato su una panchina al parco e la sua vita complicata o l'anziano londinese prodigo di informazioni stradali e voglia di raccontarsi -, ci sono i luoghi.
13 agosto 2012 People of the Kaplan school, I strongly recommend the "Bath at Work Museum" Is not for free (it cost 3.50 £ - there is a special discount for students) but is a very unusual and interesting place to visit! You will be able to learn more about the history of the city and to improve your vocabulary. Is not far from the school building in Milsom street and inside the museum there is also a sort of "club" where elderly people play cards, chat, stay togheter. Moreover, if you ask them, they will tell you about the story of co-operation.
18 agosto 2012 This morning I visited Lacock, alone. Waiting for the bus of my return journey, I went in a pub. I felt I was enjoing a privilege being sit at the dark wooden tables, on a unrefined stone floor, with soft lighting and background music. The abbey is charming. You can imagine the nuns walking silently along the galleries of the cloister and every medieval decoration tell you a story. The people of the village sell aromatic herbs and flowers along the streets and who would like to buy them can pay dropping money in their letter boxes.
19 agosto 2012 If you go to visit Avebury, you will find yourself in the middle of nowhere. The bus crosses the gorgeous English countryside as far as a little village. A solitary street of red brick houses and cottages divides the circle of stones in two parts. When you will be tired of walking in the fascinating landscape, avoid the Red Lion Pub (It's really nice, but in summer is crowded) and the museum bar, instead go along the street and you will be able to find an "elderly club". It's there that is possible to taste delicious cakes handmade by the people who run it. The forniture is from the sixities and the tea has another taste on a pink roses tablecloth! Moreover talking with charming Avebury "girls" has no price. Don't miss the manor (also if is a fake and is expensive), because is very funny touching and using everything inside the house, especially smelling the spices in the kitchen!
22 agosto 2012 Yesterday was a special day. We went to Castle Combe, a delightful rural village close to Bath. No more than thirty cottages with flowers at their windows huddle togheter. All round is possible to have beautiful walks in the countryside. There the only sound is the gurgling of the stream. It's quite difficult reach it by public transport, but it's so interesting! The area is served with a very folkloristic and old-fashioned bus driven by a reckless bus driver (the journey was so funny!). The place is splendid, but without the wonderful people that were with me it wouldn't have been the same.
E poi c'è il diario di Londra, ma quello l'ho promesso ad un caro amico, ho bisogno di tempo.

29 ottobre 2011

L'ultimo zingaro

Autunno tempo di scrittura. Elaboro strategie sempre più sottili per ritagliarmi angoli.
La casa è calduccia, Pablita dorme sul termosifone e quando la guardo ricambia la mia apprensione di mamma gatta lanciandomi un'occhiata a mezz'occhio "sono qui per il tuo e il mio piacere, sto bene e intanto che ci sono mi sto anche meritando la ciotola, ti pare?".
Ieri sono partita per Milano Rogoredo. Avendo di fronte a me un'oretta di autostrada mi sono messa comoda ben cacciata dentro ai miei stivaletti verdi pelosi nonostante i diciotto gradi (eh, ma io l'aspetto con ansia il vecchio dignitoso inverno e intanto mi preparo) e ho acceso l'autoradio sintonizzandomi su Radio Tre, emittente che, nonostante qualche caduta, mi ha più volte salvato la vita, sempre più spesso devastata dallo sgombro in scatola.
- Concerto di Klezmer - intervista alla direttrice della libreria delle donne di Milano - (al ritorno) concerto per ciabattino e bottaio -
Oltre lo spartitraffico ho sorriso al passaggio di due camion scassati degli "Jommi" che viaggiavano nella direzione opposta alla mia, che viaggiavano verso casa.
La destinazione del viaggio era il campo nomadi di Rogoredo.
Alyosha mi aspettava sorridente all'uscita della metropolitana, era una bella giornata di sole e avevamo da raccontarci più di quello che il tempo ci avrebbe concesso.
Non appena individuate le prime roulotte un simpaticissimo bastardino tutt'orecchi ha cominciato a correrci dietro segnalando a più non posso la nostra infrazione nel perimetro del campo.
Mentre noi, un po' spiazzati, ci chiedevamo dove dirigerci si è affacciata una signora, attirata dai lamenti del cagnolino, più spaventato che aggressivo.
Siamo così stati introdotti al vecchio patriarca.
L'ultimo zingaro indossava pantaloni a costine, una camicia a scacchi e un vecchio cappello sdrucito. Sulla tesa del cappello aveva una testa di cavallo di metallo, precisa visualizzazione dei suoi ricordi più cari.
Siamo stati in piedi per ore - di fronte al neonato Museo del viaggio intitolato alla memoria di Fabrizio De Andrè - ad ascoltarlo raccontare. Ogni mia singola sensazione si concentrava sul suono della sua voce, sulle sue pause di riflessione, mi è stato assolutamente impossibile l'uso - pure così essenziale in quel momento - del registratore vocale o, peggio, della macchina fotografica.
Non ho mai incontrato nessuno che fosse consapevole, come lui ha imparato ad esserlo non senza aver pagato il prezzo più caro, della propria identità.
Il signor Bezzecchi ci ha raccontato i suoi viaggi in carovana, le nottate in spiaggia a riscaldarsi vicini al falò (quando ancora il mare era loro), le lunghe gonne delle donne a portare la primavera nell'inverno delle città. La stessa gonna che adesso ha proibito d'indossare a sua moglie, accusata ingiustamente di furto in quanto riconosciuta come zingara.
Allo scomparire della civiltà contadina e con l'avvento dell'automobile non è più possibile essere zingari, se non in riserva, se non nel campo, nel piccolo campo, che i campi grandi sono ghetti di piccola delinquenza e disperazione.
Ai suoi tempi quando una carovana si fermava in un paese, il paese era protetto. I contadini ti davano da mangiare. Rubare era peccato, era proibito dalla legge severa del gruppo, è concesso rubare solo per fame.
Della donna si aveva la massima considerazione e i rapporti erano, nei fatti, paritari. Un rom difende tutte le donne, le zingare come le gadje. Fare un torto ad una donna era il crimine più grave che si potesse commettere e quello sanzionato con la massima durezza, dato che "la donna ragiona col cervello, ma l'uomo, si sa, ragiona col sesso".
Il signor Bezzecchi ha capito che i suoi figli non avrebbero più potuto essere zingari la prima volta che ha incrociato un guard-rail. Il cavallo si è impennato per la paura di trovarsi di fronte ad un oggetto sconosciuto, e per poco non sono stati investiti da un tir. Da quel momento in poi le tangenziali si sono moltiplicate, la velocità ha distrutto la lentezza, i vecchi mestieri artigiani sono scomparsi, non c'è più spazio per esseri zingari.
Suo zio è morto ad Auschwitz e suo padre dalla guerra non è più tornato.
A quel punto, tornato esso stesso dalla deportazione, ha preteso che tutti i suoi ragazzi, ben otto, trovassero un lavoro - perché in questa società se vuoi essere uno zingaro devi essere disposto a rubare, quindi non si può più essere zingari - ha cercato di mandarli via dal campo, ma tanti di loro sono rimasti, coi figli e i figli dei figli, condannati in una posizione liminale: non più zingari, mai accettati dai gadji. Una comunità solidale di una quarantina di persone, una grande famiglia. Un luogo in cui tornare e trovare protezione quando si perde il lavoro, quando si perde la casa, quando si perde la dignità. L'unico luogo veramente sicuro della periferia milanese.
Ho ascoltato rapita una storia di miseria, di razzismo, di sgomberi, di privazioni di ogni tipo, ma anche dell'ultima forma di libertà. Una storia che mi assomiglia, riflessa nei miei tratti somatici.
Di fronte alla resa, all'alzata di mani ho urlato al crimine, ho preteso il dovere della resistenza. Quando anche la cultura zingara sarà scomparsa non avremo più nulla che valga la pena di essere difeso se non riusciremo ad aprire fratture, a continuare a produrre sub-cultura, quella pasolinina, per intenderci senza allungare ulteriormente questo sfogo, senza voler condannare la dignità di un urlo a toni striduli, che possano infastidire qualcuno, uscire dai margini.
Il piccolo Museo è nato e ora prova ad alzarsi e a camminare. L'archivio (strano materiale scritto per una comunità di cultura orale), la carovana anni '50, gli amici che passano a portare un saluto, a vedere se possono dare una mano adesso che le cooperative gliele hanno chiuse.
Certo, il Museo stesso è la prova della resa, una sorta di mummificazione della cultura, una presa di coscienza del genocidio culturale. Ma è anche un tentativo di difesa del campo, della comunità, della famiglia; una risposta all'ignoranza, al razzismo, all'omologazione, al vuoto.

30 agosto 2011

Desiderio di cieli d'Irlanda (céad míle fáilte)


Galway - Irlanda, 26 agosto 2011

Pare impossibile da credere, ma è arrivato anche per me il momento di fare le valigie. Mi fermo a guardare la stanza irlandese in cui ho passato un mese della mia vita chiedendomi cosa mi aiuterebbe a rendere meno dolorosa la partenza, cosa potrei ancora infilare a forza nello spazio stracolmo dei ricordi, quanto sentimento mi resta per pagarne la sovrattassa al momento del check-in. Sulla scrivania rimangono le lettere, i disegni, le fotografie che mi sono state spedite dall'Italia: àncore fatte carta e inchiostro che mi richiamano - donna affacciata sull'oceano - al mio mare; l'ultima tazza di tè che ho - volutamente - dimenticato di riportare in cucina.
Lancio uno sguardo furtivo al cortile dove Bernadette e Christian stanno sfamando i gatti randagi; sì, sono parte della famiglia ormai (desiderio di estati più miti).
Scriverò cartoline per Natale? Penserò che anche in Irlanda bastano cinque centimetri di neve per mandare in panico il servizio pubblico di trasporti?
Domani avrò una lunga attesa all'aereoporto di Dublino.
Spero ci saranno ampie vetrate trasparenti per godere ancora degli incredibili cieli d'Irlanda.
Gli amici, le isole, i megaliti, gli insegnanti, le scogliere si sono presi ognuno una comoda tasca della valigia, senza chiedere permesso, sta a me ora infilarci anche il modo in cui questo paese si sta disfacendo: un amplesso dovuto alla voluttosità del tempo; la solitudine del percussionista; la voglia di stringersi l'uno all'altro nei vaporosi pub di Gallimh.

01 agosto 2011

"Mum, mum we are landing on the clouds!"

Con queste parole, pronunciate da una bimba affascinata dal volo e dai panorami vaporosi del cielo grigio d'Irlanda sono atterrata a Dublino. Le nuvole qui corrono talmente forte che verrebbe voglia di stare a guardarle per ore e ore. Squarci di blu intensissimo appaiono a volte a far da contrappunto ai verdi incredibili della campagna.
Due giorni nella capitale sono stati sufficienti a farmi innamorare dell'Irlanda e degli irlandesi. Tanti stereotipi si sono già infranti e, ora che sono arrivata a Galway, sulla costa atlantica, il desiderio di affacciarmi sull'oceano si fa sempre più forte.
Dublino, è quasi inutile dirlo, è una città piena di colori, musica, cultura. Per le sue strade sono passati scrittori e uomini di teatro del calibro di Joyce, George Bernard Shaw, Wilde, Beckett. Scopro di averli amati da profana, perché amarli nella loro terra d'origine assume un altro rilievo. Vi sono infiniti giardini e splendide corti in cui meditare, validissimi musei da esplorare. Dopo aver camminato per chilometri e chilometri lungo le vie del centro sono riuscita a trovar tempo per il Museum of Decorative arts & History (che ospitava un'interessantissima mostra sull'arte giapponese, nonchè un angolino etnografico), L'Irish Film Institute, L'Irish Museum of Modern Art e, grazie a Stefano, la biblioteca storica del Trinity College.
La cucina è ottima, sempre grazie a Stefano ho potuto assaggiare una bayles chocolate cheese cake che si è assicurata un posto eterno nella mia memoria gustativa. Realizzo solo ora che, pur avendo sangue nomade, non ero mai partita per l'estero da sola e tantomeno ero stata via così a lungo. Casa mi manca, ma in maniera strana: piuttosto che tornare vorrei portare casa qui, impacchettare tutti gli affetti, tutti gli oggetti, tutti i sapori, gli odori, i sorrisi e portarli a Galway almeno per un po'. Mi rendo conto che già pianifico come ritornare, se rimanere. Per cominciare spero che questo agosto non sia né troppo lungo, né troppo corto, ma per una volta a misura dei miei sentimenti che ho portato a scongelare al nord, data la mitezza della temperatura umana.

16 aprile 2011

Bozza intervento convegno sulla scrittura al femminile Assessorato alle pari opportunità - Comune di Morro d'Alba

Buongiorno a tutti, innanzitutto ringrazio gli organizzatori e in modo particolare l’Assessore Cingolani per avermi invitato a questo convegno che ritengo doppiamente importante visto che riguarda due argomenti che mi appassionano enormemente quali sono il racconto e la donna e, in particolare, la scrittura al femminile. E la ringrazio doppiamente, arrossendo un poco, per la qualifica di scrittrice della quale mi onora, decisamente esagerata per quanto riguarda la mia tutto sommato limitata (non solo in quantità - perlomeno quella resa pubblica - ma soprattutto in qualità) produzione narrativa. E la ringrazio per una terza volta perché, essendo impegnata in questo periodo nella redazione di un saggio utile all’attività didattica del corso dell’università di Bologna del quale mi occupo, avevo da diverso tempo trascurato il mio sempre insoddisfatto prurito di narrativa.
Avrei voluto inaugurare il mio discorso con la lettura di un passo di un meraviglioso saggio di Virginia Woolf il cui tema è assolutamente simile a quello che ci proponiamo di trattare oggi e la cui abilità di conferenziera è ben diversa dalla mia, ma mi prendo la libertà – e vi chiedo scusa per questa parentesi di tempo e attenzione che vi sto coscientemente rubando - di ricordare pubblicamente un amico scomparso poche ore fa in Palestina, un attivista dei diritti umani: Vittorio Arrigoni. Siate così clementi da non considerarla del tutto un’invasione di spazio, Vittorio era infatti prima di tutto un narratore, un narratore dell’inenarrabile. E la sua opera, la sua missione al servizio degli oppressi, può essere agevolmente riassunta con il titolo del suo ultimo libro: Restiamo Umani.

Ma passiamo, adesso, al tema del nostro incontro.

*[Stralcio tratto da Una stanza tutta per sé di Virginia Woolf]*
Ma insomma, potreste dire, ti avevamo chiesto di parlarci delle donne e il romanzo – cosa ha a che fare, questo, con una stanza tutta per sé? Tenterò di spiegarmi. Quando mi avete chiesto di parlarvi delle donne e il romanzo, sono andata a sedere sulla sponda di un fiume e ho cominciato a chiedermi che cosa volessero significare quelle parole. Avrebbero potuto semplicemente voler dire offrirvi alcune osservazioni su Fanny Burney; alcune altre su Jane Austen; un omaggio alle sorelle Brönte, con un ritratto della canonica di Haworth coperta di neve; forse alcune battute di spirito sulla Mitford; una allusione rispettosa a George Eliot; un riferimento alla Gaskell, e me la sarei cavata. […] Ma quando mi sono messa a considerare l’argomento […] ho dovuto presto rendermi conto del fatto che esso portava con sé un fatale risvolto negativo. Non sarei mai riuscita a raggiungere una conclusione. Non sarei mai stata in grado di adempiere quello che è, ne sono certa, il dovere primo di un conferenziere – consegnarvi, dopo un’ora di parole, un nocciolo di verità pura da serbare ripiegato tra le pagine del vostro quaderno d’appunti o da custodire per sempre sulla mensola del caminetto. La sola cosa che potevo fare era offrirvi un’opinione su un aspetto minore di questo argomento – se vuole scrivere romanzi una donna deve avere del denaro e una stanza tutta per sé.

Lo stesso quesito che ci poniamo noi oggi, il motivo che spinge l’essere umano a raccontare e che può essere rintracciato fino in quelli che sono i nostri assunti culturali di base (il mito, le figure archetipiche), declinato al femminile, è parte della richiesta che venne posta a Virginia Woolf in occasione di un convegno sulle scrittrici donne di romanzo. La geniale autrice ne tirò fuori un saggio (Una stanza tutta per sé) che è oggi una pietra miliare della rivendicazione femminile della parità fra i sessi e si inserisce all’interno di un movimento femminista maturo, consapevole della valenza differenziale dei sessi studiata in particolare in campo antropologico da un’allieva di Claude Lévi Strauss: Françoise Héritier. Il primo problema che si pone Virginia Woolf riguarda, infatti, il rapporto coercitivo sull’essere femminile da parte della società patriarcale, l’impossibilità della donna, fino al secolo scorso, di assumere autonomia – anche economica - ed essere considerata a tutti gli effetti individuo, condizioni di base della produzione artistica, fatte salve rare e stupefacenti eccezioni, destinata all’occhio e alla penna maschile: lo sguardo sulla realtà è, infatti, tutt’altro che asessuato. L’Héritier ci dimostra che la donna, in tutto il mondo, vive una situazione di inferiorità sul piano dei diritti rispetto all’uomo per una costruzione culturale che prende origine con l’espressione di una volontà di controllare la riproduzione da parte di coloro che non ne dispongono, il terrore maschile della partenogenesi. Addirittura l’inferiorità intellettuale femminile viene fatta risalire, persino da Aristotele, in un parallelismo fra idea creatrice e seme riproduttore, problema di flussi sanguigni. La saggista s’impegna a dimostrare che i sistemi di parentela sono manipolazioni simboliche del reale e tale assunto, tramite l’analisi delle società cosiddette primitive, si estende anche alla disparità fra i sessi, alla sterilità (in certe popolazioni la sterilità maschile non esiste) e addirittura alla filiazione (una saggia sentenza Samo recita: è la parola che fa la filiazione, è la parola che la sopprime ad intendere che tutto ciò che è tipicamente umano è fondato sul logos) dimostrando un primato del sociale sul biologico nelle società umane. Essendo il matrimonio uno dei tre costrutti fondamentali delle società umane – stato di cooperazione economica in cui le competenze reciproche non sono dettate da attitudini naturali, ma da convenzioni sociali – la possibilità del celibato, la certezza che la realizzazione della persona non passa necessariamente per una discendenza e dunque l’idea dell’indipendenza della donna è occorsa solo nella società moderna a seguito della nascita della nozione di individuo e non è casuale se il movimento di rivendicazione della donna degli anni ’70 si sia concentrato proprio sul diritto del pieno controllo sul proprio corpo.

Dunque, scrive la Woolf, la narrativa al femminile è così rara, prima del secolo scorso, perché le donne hanno avuto la funzione di specchi dal potere magico e delizioso di riflettere la figura dell’uomo ingrandita sino a due volte le sue dimensioni normali.

Siamo dunque alla necessità di avere 500 sterline all’anno, ora passiamo all’idea che sia necessaria una stanza tutta per sé.

È nota la storia di Melusina, essere mitico a metà fra una donna e un serpente (elemento di bestialità femminile presente persino nella Genesi) fondatrice della stirpe di Lusignano. Melusina, creduta donna “normale” dal compagno, discende da una società matriarcale e promette al suo uomo - reo di aver ucciso, seppure involontariamente, suo zio e per questo caduto in disgrazia - infinità felicità e ricchezza in cambio di un giorno alla settimana dedicato solo a se stessa sul quale il marito non dovrà mai indagare. Rivendica, insomma, l’appartarsi come un appartenersi. Il mito, infatti, fonda e sancisce le impossibilità umane. Ma, ben presto, il consorte di Melusina, pur reso ricco e felice dalla donna, non riesce più ad accettare questa minima limitazione del possesso sulla moglie e viola il patto attirando sulla sua famiglia una serie di disgrazie legate magicamente al suo vecchio delitto e sancendo simbolicamente l’unica possibilità di una femminilità addomesticata, tradotta oggi in immagini mass-mediatiche deprimenti. Lo stesso Gaston Bachelard, un filosofo d’approccio fenomenologico, analizza l’importanza dell’atto del rannicchiarsi come protezione della possibilità del pensare (per lui l’immagine della casa rappresenta la topografia del nostro essere intimo). La Woolf con questo si spiega l’impossibilità della donna di produrre cultura, la stanza tutta per sé protegge il sognatore, la casa è uno dei più potenti elementi di integrazione per i pensieri, i ricordi e i sogni, protegge l’intimità necessaria all’atto dello scrivere, addirittura rimodella l’essere umano che la abita. Noi ci possiamo espandere solo se ci appartiamo e per appartenerci abbiamo bisogno di avere uno spazio intimo, a nostra completa disposizione.

Ma perché si scrive? È forse impossibile rispondere a questa domanda, le teorie freudiane ci spiegano che si scrive per appagamento di un desiderio frustrato, io mi sento più vicina alle contemporanee e post-freudiane teorie di psicologia dell’arte che cercano di spiegarsi i motivi profondi della scrittura in un bisogno di riparazione, di scaricare una tensione ritenuta insopportabile. Credo che il bisogno di esprimersi faccia parte della stessa natura umana e compensi sempre un disagio dell’esistere. Considero la scrittura narrativa come un grido, come il pianto del bambino appena nato che, venuto a contatto con il mondo, ha bisogno di comunicare la sofferenza di un essere anfibio che impara a respirare catapultato in un mondo che sente estraneo, che imparerà a conoscere per mezzo della parola. Ed è su temi quali il rapporto fra generazioni, l’essenza del dolore, l’assenza di Dio, il rapporto con la morte e con la malattia, il tema della maternità che si concentra la mia scrittura che diviene una specie di autoanalisi su argomenti che sento pressanti e che mi rendo conto di non saper controllare appieno, che cerco di esternare per condividere col prossimo (gli altri: il vero senso della vita oltre l’eterno conflitto irrisolto fra scienza e religione per Ingmar Bergman) e per aiutare il processo di formazione della mia individualità. Ma, esternare la mia intimità mi è stato tanto difficile da non sapere, per lungo tempo, scrivere in prima persona o identificarmi in personaggi femminili, per i quali sentivo maggiore prossimità. Ed è proprio un’urgenza oserei dire fisiologica che mi porta a preferire le forme brevi: l’aforisma o il racconto, per sfogare tutto subito e aver poi modo di rivedere mille volte lo stile e procedere ad un processo di semplificazione. La parola rende determinato un dolore il cui peso nell’indeterminatezza risulta eccessivo, la parola ha funzione catalizzatrice, liberatrice. Liberazione che passa, innanzitutto, attraverso il gesto fisico della scrittura. Barthes, ne Il piacere del testo, meglio di chiunque altro affronta il segno come la traccia della nostra individualità e il prolungamento del nostro corpo, momento di coagulazione del nostro gioire e soffrire e momento universale di eterna variazione stilistica e grafica degli stessi temi archetipici.

Ma il racconto non è solo scrittura e non vorrei trascurare l’importanza dell’oralità (chi non ricorda con estrema commozione le fiabe della nonna), oralità che Platone, nella parte quinta del Fedro, considera addirittura superiore alla scrittura. Tale analisi viene riconsiderata da un platonico non misologo come Pier Paolo Pasolini che, per primo, intuisce l’importanza della scrittura come mezzo di riflessione di una parola che “si esternalizza” e, dunque, permette di riflettere sull’oralità stessa. Attraverso il suo amore per le forme dialettali lo scrittore friulano diviene il portavoce del grido delle ultime civiltà mitiche – fra cui la nostra civiltà contadina - distrutte dalla storia.
Per questo ho portato con me un video che testimonia un progetto di antropologia visuale che riguarda proprio il racconto al femminile in rapporto al tema del legame indissolubile fra cottura e cultura, condotto per conto della Fondazione Museo Ettore Guatelli e mostrato in occasione di un festival etnografico biennale ideato e voluto dall’ISRE (Istituto Superiore di studi Etnografici Sardo). Vi si trova condensato il senso del racconto prioritariamente come incontro, vi si intuisce la tonalità multicolore delle forme dialettali, il bisogno di raccontarsi radicato, in modo particolare, in donne chiuse in un panorama domestico. Ho intenzione, a questo punto, di lasciare la parola alle donne stesse, mi permetto solo di leggervi l’introduzione che scrissi a suo tempo in occasione della presentazione di questo progetto di ricerca, unicamente per farvi capire in che stato d’animo mi apprestavo a mostrare queste interviste, di cui vi ho portato gli esempi più lievi, per non infrangere un patto che prevede l’assoluto rispetto dell’altrui intimità.

La tazzina di caffè è ormai vuota, la donna che ho di fronte col cucchiaino ne sposta i granelli di zucchero sciolti a metà. Ci troviamo in cucina; dettagli discreti ne rivelano la vita recente: una macchia di grasso sui fornelli, un’aureola di calcare sul rubinetto, una briciola. Aspettiamo ansiose che parole speziate vadano a mescolarsi nel calderone della memoria condivisa il cui fuoco tentiamo di accendere; sul tavole allestiamo vassoi immaginari, quelli del servizio buono, aspettando di portare a tavola emozioni amalgamate a ricordo. C’è sempre un caffè galeotto a spezzare la ritrosia, a permettere il racconto in presenza di un mostro dall’occhio meccanico – la videocamera – che rischia di allungare le distanze. Devo propormi all’altrui femminile confidenza non solo come donna, ma anche come ricercatrice. E allora, da ricercatrice donna, occorre che io tenga conto dell’etica, dell’eredità che mi viene affidata, della menzogna dell’obiettività, del non-filmabile, della vita in campo e di quella che devo tenere necessariamente fuori campo. Nel menù del giorno vite in cucina, nostalgie della fame, peccati di gola.

*[Proiezione del video]*

*[Stralcio tratto da Una stanza tutta per sé di Virginia Woolf]*
Vi ho già detto, nel corso della mia conferenza, che Shakespeare aveva una sorella; ma voi non cercatela nella biografia del poeta scritta da Sir Sidney Lee. Lei morì giovane, e ahimè non scrisse neanche una parola. È sepolta là dove oggi si fermano gli autobus, di fronte alla stazione di Elephant and Castle. Ora, è mia ferma convinzione che questa poetessa che non scrisse mai una parola e fu seppellita nei pressi di un incrocio, è ancora viva. Vive in voi, e in me, e in molte altre donne che non sono qui stasera perché stanno lavando i piatti e mettendo a letto i bambini. Eppure lei è viva. Perché i grandi poeti non muoiono; essi sono presenze che rimangono; hanno bisogno di un’opportunità per tornare in mezzo a noi in carne ed ossa. E offrirle questa opportunità, a me sembra, comincia a dipendere da voi. Poiché io credo che se vivremo ancora un altro secolo – e mi riferisco qui alla vita comune, che è poi la vita vera e non alle piccole vite isolate che viviamo come individui – e se riusciremo, ciascuna di noi, ad avere cinquecento sterline l’anno e una stanza tutta per sé; se prenderemo l’abitudine alla libertà e il coraggio di scrivere esattamente ciò che pensiamo; se ci allontaneremo un poco dalla stanza di soggiorno comune e guarderemo gli esseri umani non sempre in rapporto l’uno all’altro ma in rapporto alla realtà; e così pure il cielo, e gli alberi, e qualunque altra cosa, allo stesso modo; se guarderemo oltre lo spauracchio di Milton, perché nessun essere umano deve precluderci la visuale; se guarderemo in faccia il fatto – perché è un fatto – che non c’è neanche un braccio al quale appoggiarci ma che dobbiamo camminare da sole e dobbiamo entrare in rapporto con il mondo della realtà e non soltanto con il mondo degli uomini e delle donne, allora si presenterà l’opportunità, e quella poetessa morta, che era sorella di Shakespeare, riprenderà quel corpo che tante volte ha dovuto abbandonare. Prendendo vita dalla vita di tutte le sconosciute che l’avevano preceduta, come suo fratello aveva fatto prima di lei, lei nascerà. Ma che lei possa nascere senza quella preparazione, senza quello sforzo da parte nostra, senza la precisa convinzione che una volta rinata le sarà possibile vivere e scrivere la sua poesia, è una cosa che davvero non possiamo aspettarci perché sarebbe impossibile. Ma io sono convinta che lei verrà, se lavoriamo per lei, e che lavorare così, anche se in povertà e nell’oscurità, vale certamente la pena.

Concludo non solo con un invito alla scrittura e alla lettura, ma anche con un invito a contrastare, tramite il racconto e quindi l’incontro, il predominio della tecnica, dell’efficienza, del profitto su ciò che di più profondamente umano esiste. E, per dirlo con le parole di una poetessa marchigiana – Maria Teresa Batosti – a ricercare il senso vero dell’essere donna: donne che si arricchiscono del confronto con la figura maschile, ma che “non sono né di Dio, né degli uomini”.

17 novembre 2010

Appunti per una ricerca in corso, ovvero: "così impiegherei, se potessi permettermelo, gran parte del mio tempo"

Da quasi due anni sto lavorando su una ricerca che riguarda l'analisi dell'ambientazione del film. Inauguro oggi un sottocapitolo tramite il quale vorrei proporre il rapporto fra parola (orale vs scritta) corpo e oggetto (mi sono servita degli studi di Baudrillard per proporre un paragone fra "oggetto-reliquia" e "oggetto-utensile"). Il tutto dovrà essere inserito all'interno di un macro capitolo sugli interni del cinema del dopoguerra italiano d'ambientazione meridionale e contadina con un occhio sempre rivolto agli studi sulla cultura materiale e alla letteratura coeva (fonte di tanti film del periodo e legata al concetto di testualizzazione del visto).

A forza di sezionare e ferire i corpi pellicolari mi è capitato fra le mani un accostamento d'immagini che da solo dice di più di un intero trattato sul modo pasoliniano di esprimere il concetto di sacralità tramite il rapporto fra personaggio e ambiente. Tanto mi ha emozionato che sento la necessità di condividerlo:




Un insieme di citazioni, altrettanto commoventi se accostate, mi hanno spianato la strada e con esse intendo introdurre questa parte del lavoro:

In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio e Dio era il Verbo [...] E il Verbo si fece carne e dimorò fra noi
*(Gv 1,1-14).

A capo de tutto ce sta Dio, padrone de lo cielo, questo tutti ce lo sanno.
Poi viene il Principe de Torlonia, padrone de la terra.
Poi vengono le guardie de lo Principe.
Poi vengono li cani de le guardie de lo Principe.
Poi niente.
Poi ancora niente.
E poi ancora niente.
Poi venghene li cafoni
.
*[Fontamara - Carlo Lizzani]

- Noi non siamo Cristiani, - essi dicono, - Cristo si è fermato a Eboli -.

* [Cristo si è fermato ad Eboli - Carlo Levi]