Lo so, l'articolo è un po' lungo, ma aiutatemi ad adempiere una promessa.
Ho chiesto loro: "cosa si può fare per aiutarvi?"
E la risposta è stata "racconta la nostra storia, diventa ambasciatrice della nostra causa nel tuo paese".
Premessa
Un giorno qualunque di lavoro, primavera 2015.
Il mio contratto in ufficio è appena scaduto, ma ho ricevuto un paio di buone notizie: d'estate lavorerò con i bimbi di Legambiente e in autunno terrò un corso universitario.
La sopravvivenza in tempi di precarietà mi è garantita ancora per qualche mese.
Come mi capita sempre più spesso sono davanti al computer, mangio un boccone in piedi e passo da una finestra all'altra sul monitor per non rimanere focalizzata dodici ore al giorno sui materiali che sto preparando per un seminario universitario che non prevede neppure un rimborso.
Arriva un messaggio su facebook.
Mi scrive Paolo dell'Associazione di promozione sociale "A la Calle" di Rimini.
Ci conosciamo da diversi anni per motivi politici, ma non ci siamo mai frequentati.
Paolo mi chiede se gli organizzo un'iniziativa pubblica a Parma, cercano persone che abbiano voglia di partecipare alla loro "Carovana dei diritti": un viaggio in terra di Palestina.
Mi torna in mente il periodo in cui sostenevo attivamente la causa palestinese, appoggiando iniziative quali il boicottaggio dei prodotti israeliani, seguendo quotidianamente le attività portate avanti da singoli, ONG o associazioni a Gaza e in Cisgiordania.
Ricordo di essere andata al funerale di Vittorio Arrigoni, il discorso che ho tenuto per lui il 25 aprile di quell'anno e realizzo anche che da allora non mi sono più informata sulla situazione là.
Accetto immediatamente ad una sola condizione: devono portarmi con loro.
Partiamo il 16 agosto, dopo aver preparato una serie di documenti che certificano che la nostra presenza a Beit Sahour è dovuta al monitoraggio di un progetto di cooperazione chiamato "Tunes for peace". Lo ospitano al Palestinian Centre for Rapprochement between People.
http://www.rapprochement.org/
Per quanto possa sembrare assurdo, infatti, per arrivare in Palestina occorre passare attraverso severi controlli israeliani e l'accesso non è per niente scontato: si rischia di essere rimandati indietro.
Se il turismo di tipo dichiaratamente religioso è tollerato, la presenza di cooperanti e, più in generale, di internazionali su territorio israelo-palestinese non è gradita.
La notte fra il 16 e il 17 agosto la passiamo in un albergo a Istanbul.
Queste sono le mie prime impressioni sul mondo arabo, appuntate su un quaderno, mentre lasciavo la capitale turca alla volta di Tel Aviv e poi mi spostavo verso la Guest House che ci avrebbe ospitati.
In viaggio verso Beit Sahour, 17 agosto 2015
Nei caffè turchi, anche quelli per turisti, i dervishi mantengono sempre
un'aria di mistica concentrazione, un dito appena sollevato verso
l'alto a far da vertice, il corpo un tramite perfetto fra la terra e il
cielo. Le ragazze velate ridono e fumano narghilè, altri fanno le
abluzioni prima di entrare in moschea. L'imam inizia prima dell'alba
a cantare per mezzo di enormi megafoni in una sorta di continuità
sodale fra tradizione e modernità.
Lasciata Istanbul alla volta di Tel Aviv mi sono trovata ai miei piedi i confini dell'Asia. L'aereo ospitava almeno tre delle grandi religioni monoteiste. Spiegato del progetto di cooperazione, superati i controlli e il primo
check point lasciamo Tel Aviv per Gerusalemme e poi saliamo su un
autobus pubblico palestinese.
L'impatto col muro è fortissimo. Bisogna scendere e passare i tornelli. Di là c'è un altro mondo.
Emozioni scomposte.
Realizzo a poco a poco dove sono e sono le informazioni e i dettagli apparentemente più banali a darmene la dimensione.
Al gate a Istanbul ricordo di aver visto delle donne vestite in un modo per me irriconoscibile. Era qualcosa a metà fra un abito contadino di metà Settecento localizzabile in qualche area irrangiungibile dell'Est Europa e un costume di carnevale. Gli uomini, vestiti di nero, in abito tradizionale, si erano allontanati e solo al loro ritorno ho potuto identificare la provenienza di quella famiglia: coloni.
Paolo e Marco, le nostre guide esperte, ci hanno organizzato due settimane molto intense per permetterci di prendere familiarità col territorio e con la cultura palestinese.
Ogni giorno incontriamo un paio di associazioni.
Il primo incontro è fissato nella sede dell'ARIJ, l'Applied Research Institute di Gerusalemme il cui scopo è monitorare la colonizzazione israeliana e le attività nei territori palestinesi occupati.
http://www.arij.org/
All'istituto ci danno conto della situazione generale, del piano israeliano di occupazione dei territori e in particolare del nuovo progetto di divisione della Cisgiordania e cambiamento demografico per mezzo di tre enormi corridoi di sicurezza, come pure delle violenze quotidiane perpretate a danno delle comunità palestinesi da coloni ed esercito.
Ci spiegano come nasce un outpost e in che modo si trasforma in colonia, ci parlano delle demolizioni di case.
Affiancano a questo puntuale lavoro di monitoraggio la descrizione dei molti progetti attivi.
In una città dove l'acqua è razionata a causa del controllo israeliano delle risorse, dove la popolazione (a maggioranza cattolica) è costretta a subire le violenze della colonia nata a pochi chilometri di distanza e in costante espansione e dove non esiste un servizio di raccolta dei rifiuti, all'ARIJ sviluppano l'agricoltura biologica, elaborano sistemi di coltivazione senza terra (qualcosa di simile all'idroponico), lavorano sul concetto di sostenibilità ambientale.
Intanto a Har Homa - la colonia grigia e a pianificazione urbanistica del tutto geometrica e razionale che spicca alle spalle di Mounif, che nel frattempo ci sta mostrando la verdura che producono - i coloni hanno villette con piscina, tutti i servizi, giardini e parchi per bambini.
Mounif dell'ARIJ |
Lo stato israeliano, infatti, non essendo riuscito a risolvere il problema della presenza araba a Gerusalemme est tramite la costruzione del tristemente famoso muro, ha permesso la nascita di colonie tutto intorno alla città. Tali colonie vengono poi collegate con la città per tramite di strade a solo uso israeliano, a cui i palestinesi non possono accedere. In tal modo, continuando a costruire, le colonie diventano un tuttuno col tessuto cittadino principale e la residua comunità araba è accerchiata e inglobata all'interno di una megalopoli di proporzioni enormi.
Marwa ha fatto un anno di carcere e ha un volto serio e invecchiato, pur essendo una bellissima ragazza. I militanti come lei sono esclusi dalla comunità israeliana. Spesso vengono allontanati dalle famiglie, fanno fatica a trovare un lavoro o un appartamento in affitto.
20 agosto 2015
Siamo in viaggio fra Beit Sahour e Ramallah su un vecchio furgone a otto posti noleggiato a Betlemme. Quello che i palestinesi chiamano "service", dato che il servizio di linea di autobus esiste solo nelle strade ad uso israeliano, dove ad ogni fermata ci sono due o tre militari armati a servizio, a "proteggere" i coloni.
Passiamo per Azarya, zona franca lasciata fuori dal muro i cui cittadini si rifiutano di pagare la tasse allo stato israeliano ed è diventata zona di ricettazione.
Fuori dalla colonia file di lavoratori arabi che chiedono un lavoro al caporalato ebreo.
Il paesaggio è caratterizzato da intere piantagioni di pini marittimi, che gli israeliani piantano al fine di evitare che i pastori palestinesi possano far pascolare pecore e capre e da un forte odore di diossina.
Un cartello rosso ci avverte che stiamo entrando in zona vietata dalla legge israeliana.
Niente foto o si rischiano problemi in aeroporto, al ritorno.
In realtà in questa zona non esiste neppure la microcriminalità. Mi sento sicura.
A Ramallah ci accoglie un'associazione che si occupa del supporto legale dei prigionieri palestinesi: Addameer.
http://www.addameer.org/
Dal 1967 ad oggi più di 800.000 palestinesi sono stati detenuti nelle carceri israeliane, spesso senza capi d'imputazione. Il trasferimento nelle carceri israeliane è fra l'altro vietato dalla convenzione di Ginevra.
Li interrogano per 75 giorni, nessuna traduzione è prevista durante il processo, tengono le informazioni riservate, possono rinnovare di sei mesi in sei mesi la detenzione senza capi d'imputazione, anche i bambini vengono accusati e gli vengono fatte firmare dichiarazioni di colpevolezza per poter tornare a casa, la tortura è praticata e socialmente accettata in quanto "servirebbe a salvare altre vite umane". Le visite dei familiari sono difficoltose, spesso impossibili.
Ma il dato più spaventoso di tutti è quello che in inglese viene definito "medical neglect".
Immaginate cosa significa negare le cure mediche ad un malato di cancro?
Si può essere incarcerati anche solo perchè si espone la bandiera della Palestina.
Quando la ragazza che ci spiega la situazione finisce di parlare, il suo volto incorniciato da una vetrata luminosa da cui riusciamo ad intravedere la città, ci chiede se abbiamo domande.
Dopo un momento di totale silenzio il suo volto serio si scioglie in un sorriso e ci dice che capisce che l'impatto emotivo possa essere forte.
Al campo profughi di Qaddura incontriamo anche le attiviste dell'Association of Women's Action for Training and Rehabilitation che si battono per i diritti delle donne.
www.aowa.ps
Se pensate che la Palestina è probabilmente il paese più avanzato del mondo arabo per ciò che riguarda i diritti delle donne, continuamente messi in discussione da ciò che accade a livello internazionale, capirete bene l'importanza del loro lavoro.
Al centro per disabili, intanto, hanno inventato una preghiera che consente a cattolici e musulmani di pregare insieme.
Visitiamo il museo di Mahmoud Darwish, il cui insegnamento nelle scuole è vietato dagli israeliani, ma la cui poesia rimane di un'incredibile e unica potenza espressiva e di una dolorosissima attualità.
Qualcuno ha scritto sul quaderno delle firme "I feel sad because Mahmoud died".
Davanti alla tomba di Arafat un pullman di bambini che cantano: sono venuti a porgere omaggio al Presidente.
Il ritratto di Yasser è appeso in moltissime case e, per quanto i palestinesi siano a lui legati da profondo affetto, credono che gli accordi di Oslo siano stati la fine di ogni speranza.
Nessuno più crede alla soluzione "due popoli, due stati".
Nel frattempo la gioiosa confusione dei mercati arabi, la sregolatezza nella guida, il senso profondissimo della solidarità sociale, dell'identità tradizionale, della comunità ci convince che assomigliamo straordinariamente a questo popolo così sofferente, eppure così vitale.
Entrando al campo proughi di Aida, quello che colpisce è la grande chiave a decorazione dell'ingresso. Impariamo in seguito che i profughi hanno conservato le chiavi delle case da cui sono stati cacciati via e reclamano ancora il diritto al ritorno.
Al centro culturale Alrowwad si occupano di quella che loro chiamano "Beautiful Resistance", hanno una ludoteca, una biblioteca, un piccolo teatro e stanno allestendo un museo etnografico.
http://www.alrowwad.org/en/
21 agosto 2015
Nei campi profughi conservano ancora le chiavi delle case da cui sono stati cacciati.
A tenerle in mano pesano, scottano.
Gli anziani ricordano il profumo particolare che aveva la menta e la salvia di casa loro.
Oltre alle chiavi conservano proiettili progettati per esplodere solo una volta penetrati nella carne, i contenitori dei lacrimogeni - a centinaia - diventano vasi, decorazioni.
Dovunque capiti, che sia la sede di un'associazione o una grigliata fra amici, tutti hanno una storia tremenda alle spalle e qualche caro in prigione.
Eppure ci si batte per i diritti delle donne, si aprono ludoteche per far respirare ai bambini qualche minuto di pace (che la violenza quotidiana indurisce), il muro si trasforma in un cineforum.
La chiamano "Beautiful Resistance".
A proposito di scontro di civiltà: quando avremo capito quant'è importante per gli equilibri mondiali questo fazzoletto di terra sarà ormai troppo tardi.
Maledetto sia chi fa di tutta un'erba un fascio.
In un solo chilometro quadrato sono ammassate seimila persone. La disoccupazione è al 49%. Case sono cresciute dove prima erano solo tende, per cui gli spazi sono ridottissimi. Due famiglie vivono in ogni stanza, possiedono un bagno per ogni quartiere. I soldati israeliani se devono prelevare qualcuno non si azzardano a passare negli stretti vicoli, ma abbattono le costruzioni spianandosi il passaggio fino alla destinazione a cui sono interessati.
La ragazza che ci spiega la situazione dice di aver avuto per la prima volta coscienza del fatto che gli israeliani non miravano ai terroristi, ma a tutti i paestinesi, quando hanno attaccato la sua scuola. Gerusalemme è a pochi chilometri da lì, ma lei vi è stata solo nel 2012 e solo grazie ad un permesso speciale ottenuto per tramite di un'ONG.
A Nablus i bambini ci salutano dalle finestre e tutti ci invitano a visitare le botteghe artigiane: la piccola economia locale produce sapone d'olio d'oliva, buste di ceci zuccherati.
Nei bazar assaggiamo le spezie, compriamo il caffè arabo, ci lasciamo affascinare dai mucchi di merce accatastati un po' ovunque.
Il centro storico, punteggiato di lapidi a ricordo degli uccisi e dei nomi dei paesi da cui sono dovuti scappare, è di grande valore artistico-culturale.
Nel campo profughi di Jenin incontriamo la situazione più dura.
Vi opera il Freedom Theatre.
http://www.thefreedomtheatre.org/
Il teatro, oltre che allontanare i ragazzi dall'orrore di un'occupazione militare quotitidiana per tramite della cultura, serve anche da cura per chi soffre le gravi conseguenze psicologiche della violenza subita o, peggio, abbattutasi sui familiari.
Sono consapevoli di non essere occupati solo politicamente ed economicamente, ma anche culturalmente.
Il ragazzo che ci accoglie ha chiaro che la strategia politica degli occupanti intende dividere i palestinesi, grazie al miraggio del benessere che offrono le città israeliane (dove tuttavia la condizione degli arabi è anche più dura di quella che vivono in Palestina: una situazione di vero apartheid).
Qualcuno provocatoriamente gli chiede se non preferirebbe vivere in una città con acqua corrente.
Risponde che sì, gli piacerebbe tornare a vivere come prima dell'occupazione.
All'ingresso del campo profughi un cavallo realizzato con i pezzi di lamiera delle ambulanze fatte esplodere dall'esercito. |
Oggi per la prima volta in vita mia ho visto la povertà.
Eppure tutti ci invitano a cena, persino il taxista.
Ora sto viaggiando dentro il bagagliaio di una macchina e sono contenta, persino commossa.
Hebron è una città divisa non solo per quartieri, ma persino una strada può essere tagliata a metà.
I coloni si appropriano dei piani alti delle case e buttano immondizia e pietre sul mercato arabo, di sotto.
I palestinesi sono costretti a mettere grate alle finestre. Andare a prendere l'acqua sul tetto può costare la vita. Si vive in perenne stato d'assedio.
Ve la ricordavate questa foto? Era stata scattata qui.
Nonostante questa situazione Al Rehabilitation Committee ricostruiscono le case demolite rispettando gli antichi sistemi di costruzione.
http://www.hebronrc.ps/index.php/en/
Non posso sopportare l'idea che la nostra guida palestinese non possa procedere lungo una strada della sua città e che noi, grazie ai nostri passaporti internazionali, pur essendo stranieri, possiamo invece attraversare il check point che conduce alla colonia, al quartiere successivo.
Il giorno dopo c'è anche lo spazio per essere orgogliosi e emozionarsi per un pezzo d'Italia in terra palestinese.
http://tuwaniresiste.operazionecolomba.it/
Visitiamo il villaggio di At-Tuwani, tristemente famoso perchè i coloni spararono sui bambini palestinesi che andavano a scuola. Intervennero allora gli internazionali, offrendosi di fare da scudo umano. Le violenze perpetrate sugli internazionali riuscirono a far muovere l'opinione pubblica.
Da allora lì opera l'Operazione Colomba.
Un presidio squisitamente italiano in un villaggio di pastori.
I ragazzi, armati solo di videocamera e passaporto, continuano a garantire ai bimbi un accesso sicuro alla strada, accompagnano i pastori al pascolo dovendo subire quotidianamente le violenze dei coloni rispondendo solo ed esclusivamente con pratiche di non violenza.
E questo impegno assiduo, questa presenza costante ha garantito ad At-Tuwani il riconoscimento di un piano regolatore e conseguentemente il blocco delle demolizioni.
Chiedo a Sara cosa si fa quando un colono ti punta una pistola alla testa, come è successo a lei.
Risponde che non si deve fare assolutamente nulla, ma ci si limita a cercare di intercettare il suo sguardo.
Qualsiasi cosa succeda è il pastore che decide il da farsi, si rimane con lui.
Nessuno è mai riuscito a parlare con un colono. A volte l'unica speranza è da riporre nei soldati, altrettanto violenti, ma fra cui ogni tanto capita qualche ragazzino che sta svolgendo il servizio militare solo perché obbligato.
Il senso della solidarietà palestinese è talmente forte che ora si cerca di estendere il modello ai paesi circostanti, fra cui Susya dove la situazione è ancora più tragica, ma per far questo c'è bisogno di volontari.
Situazione simile vivono i beduini del Negev.
Andiamo ad Al Araqib dopo aver conosciuto Silvia Boarini e Linda Paganelli, che stanno lavorando su un documentario lì ambientato e intitolato "Blooming the desert".
Arriviamo un'ora dopo l'ottantottesima demolizione.
Per loro "Resistere è esistere". Legati a strettissimo filo con la loro terra, i beduini hanno deciso che non se ne andranno mai. Dopo che il loro villaggio è stato distrutto restano a difendere il loro cimitero, a rivendicare il loro diritto di rimanere.
Seduti tutti intorno ad un vecchio salice in mezzo al deserto, ci offrono tè alla menta, battaglia e disperazione.
Sono convinti che riusciranno a rimanere un minuto in più dei loro nemici. Chi è alleato con Isarele è loro nemico. La comunità scappata in città li sostiene.
http://silviaboarini.com/UnrecognizedintheNegev.html
Anche gli arabi israeliani non se la passano bene.
Ce lo raccontano ad Haifa i ragazzi di Baladna, un'associazione per i giovani.
http://www.momken.org/?mod=cat&ID=24
Fra le loro molte attività inventano ritorni immaginari per i profughi nei villaggi d'origine, creano extracurricula nelle scuole per insegnare la letteratura palestinese, propongono usi alternativi dei social media.
In Israele costruiscono dappertutto, quello che rimane negli occhi è il profilo infinito di gru in azione contro l'orizzonte.
Gli alberi che piantano nel deserto si coprono, tetramente, di polvere bianca.
Infine il professor Mazin Qumsiyeh - professore di Yale e Duke prima di Betlemme - ci spiega che anche la biodiversità è a rischio a seguito dell'occupazione israeliana, mentre la società tradizionale viveva in armonia con la natura.
Anche lui non può trattenere le lacrime quando parla di una sua collega uccisa dall'esercito.
Infatti muoversi per il territorio palestinese significa essere soggetti a continue vessazioni, impiegare ore e ore per far pochi chilometri, non essere liberi negli spostamenti.
Nonostante il passapoporto americano, gli è negato l'accesso a Gerusalemme.
Eppure cerca di coinvolgere i ragazzi, farli collaborare nella costituzione del Museo di storia naturale palestinese.
https://www.youtube.com/watch?v=APxvAZh8qrQ
Se si vuol essere informati sulle loro attività, così come sulla situazione di privazione dei diritti umani più generale gli si può chiedere di iscriversi alla sua newsletter: mazin@qumsiyeh.org
27 agosto 2015
Ultimo giorno a Beit Sahour e l'impressione è quella di tornare a casa partendo da casa.
Già mi logoro di nostalgia.
Come potrei mai dimenticare la rabbia e il dolore composti dei vecchi pastori e beduini che resistono all'abbattimento delle case ("la terra è la mia identità, resisto per esistere"), il bimbo che muove la manina della sorellina piccola per salutarci, il sapore di un tè alla menta offerto anche se non ti rimane niente?
Scatto una foto ad un'altra bimba che mi guarda curiosa da dietro una grata.
Come potrei dimenticare la bellezza del deserto e del paesaggio, il senso assoluto dell'ospitalità palestinese, l'idea di aver ritrovato quello spirito comunitario che da noi non esiste più e qua invece esiste eccome, pur essendo loro segregati, aggrediti da soldati e coloni, minacciati persino da una "modernità forzata"?
Qua portano avanti le battaglie più avanzate che in Italia riusciamo solo a proporre.
Parto con una sensazione amaro dolciastra in bocca e l'intenzione di voler fare a tutti i costi quel poco che si può fare per questa splendida terra.
A tutti prometto di raccontare. E di tornare.
Sostenete la campagna di boicottaggio dei prodotti israeliani, i palestinesi dicono che ha effetti concreti.
http://www.bdsmovement.net/
3 commenti:
Grazie.
Senza parole...
Con i tuoi occhi, con le tue emozioni, con i tuoi pensieri, con te tue parole. Oggi, 28/10/2023.
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