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26 marzo 2007

Un ormai vecchio, doloroso gioco di Segni (aspettando di scrivere ancora).


Ti dissi una volta che la scrittura è terra, uomo, carne. Solco. Segni. Come sai un libro conosce giovinezza e vecchiaia. L’ultima pagina è per lui una morte e una speranza. Sale che rimane appiccicato alle dita in forma di macchie d’inchiostro. Finitezza di un universo le cui stelle hanno le grazie.
Il nero inchiostro luminoso, simile ad una strada notturna ai primi raggi dell’alba, si asciuga e muore di una morte opaca, di cui rimane il segno.
Il segno aveva forma di “S”: una strada sinuosa lastricata di ciottoli che si muovevano a contatto dei miei passi, come un lamento. Due curve e poi la vista era interrotta dalla casa di tuo padre, un uomo dalla testa rotonda, basso, la schiena diritta, una specie di “i” minuscola. Un “Sì”, il sì che avevi recitato unendo la tua vita alla mia, spostandomi dal mio ricovero d’erba brillante e portando i miei passi a suonare questo lamento. Il lamento sordo della mia penna stilografica secca, il tuo battere martellante sui tasti di una ormai vecchia macchina da scrivere a cui è venuta a mancare proprio la “i”. Un vuoto che riempivi con la “I” maiuscola del tuo Io. Un lamento sordo che si univa alla mia cecità dolorosa.
Con lo sbattere della tua porta si è chiusa la mia parentesi. Dentro una dolcezza come una scia d’inchiostro che la realtà sbiadisce a poco a poco. Cancello la tua strada, tuo padre, cammino sul letto del ruscello, abbandono la vergogna per una stitica maturità. La tua schiena era una “S”, il filo d’erba che stringevo fra le dita una “i” da cui prendeva il volo una coccinella. Hanno abbattuto gli alberi secolari che dirigevano la strada come vigili. Le curve sinuose hanno lasciato il posto a spigoli pungenti, tuo padre è ingrassato. Vedo la strada da un’altra prospettiva adesso, ho sostituito alla morbidezza del fruscio della matita sul foglio gli acuti della tua voce decisa che mi giungono da un’altra angolazione. No, non avresti più diviso la tua vita con la mia. Mutava la facciata delle cose, tutto tranne i vecchi muri in sasso che, come prima, rimarranno a coprire il mio orizzonte.
Come hai sempre fatto, mi dirai che non capisci le mie parole, che il tuo lavoro era il pane della nostra vita, la mia scrittura lettere che si perdevano nel vento. Il tuo amore ha preteso da me il sacrificio più grande: il silenzio. Coi pochi vocaboli che mi hai lasciato, per le piccole cose di ogni giorno, costruirò di nuovo la tua immagine per imparare a vivere senza il tuo pane.


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Dopo anni di convivenza fatta ormai di niente, lei gli disse che non aveva mai osato lasciarlo perché avevano troppi libri in comune. Poteva rimproverarsi solo di non averne comprate due copie di ognuno.

11 commenti:

guccia ha detto...

Visto che ci sono dei ragionevoli dubbi lo scrivo: ogni riferimento a cose, persone, animali della mia vita, se c'è, è puramente casuale.

Isabel Green ha detto...

ma quante cose abbiamo in comune...scrivi anche tu =)

Anonimo ha detto...

Molto bello... :)

guccia ha detto...

Grazie Gloutchov :)

Sì, Galandriel, se ti interessa avevo pubblicato alcuni racconti che erano andati bene in concorsi letterari qui:
http://gucciaguccia.blogspot.com/2006/11/piazza-krasnaja.html
Un bacione :*

Isabel Green ha detto...

appena posso andrò a leggere.ti aspetto sul mio blog per sapere che ne pensi dei miei.niente di spettacolare intendiamoci =)

guccia ha detto...

galadriel sei troppo modesta!
Sono molto belli invece!

Marco Dale ha detto...

L'hai scritto te?????
Porca zozza se non è bello!!!!

Isabel Green ha detto...

marco ma ce l'avevi con guccia vero?

Marco Dale ha detto...

Si!!!
Hai anche tu qualcosa da far leggere???
Un attimo che passo da te a vedere!!!
;-)

guccia ha detto...

Grazie Marco!! Sì l'ho scritto io :D e ho scritto tanta altra roba :)

Anonimo ha detto...

Perche non:)