Non ho avuto il coraggio di scrivere un post sulla caduta del governo ma ho sofferto e sto soffrendo molto. Per fortuna mi trovo in quel di Agugliano, non esageratamente ridente località del molto ridente entroterra anconetano. Ho la fortuna di vivere questi giorni in una casa che si affaccia sulle colline marchigiane... a sinistra il monte Conero, al centro il castello di Offagna, a destra i Sibillini, dall'altra parte il mare... non so se mi spiego. Ho lasciato alle mie spalle per pochi giorni la nebbia, lo snobismo, la frenesia, i doveri di lavoro, dell'università, di casa. La mattina mi alzo (non troppo presto) e la mia prima occupazione è andare a comprare il pane, rigorosamente a piedi. Le persone che incontro sono quelle che mi hanno vista crescere, sfrecciare sulla biciclettina a cui ho tolto presto le rotelle, sfrecciare a fianco dell'amichetta inseparabile di allora. Con tutti scambio due parole. La seconda occupazione andare a comprare il giornale e far tornare a casa il gatto che vorrebbe seguirmi in paese ma che preferisco vedere passeggiare indisturbato per la nostra via che è già campagna. Prima di pranzo vado a prendere mio fratello che torna con la corriera e per il resto libri e qualche visita alla nonna che vive in riva al mare, mare a cui non si possono rifiutare lunghe chiacchierate fra lo stridio dei gabbiani, rari corridori, un aquilone timido, qualche cane in passeggiata.
Ho ascoltato, come fossero una musica dolce e dimenticata, i suoni del nostro dialetto e mi sono lasciata andare a riadottare, a poco a poco, l'intonazione e le tante cesure anconetane. Ognuno dovrebbe avere la possibilità di tornare al proprio paesuncolo per qualche giorno, credo che non ci sia niente di più dolce e rilassante.
26 febbraio 2007
Semplicemente Ancona, casa mia.
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19 febbraio 2007
Museo del cinema di Torino e parentesi su "Le luci della sera" di Kaurismaki
Ebbene sì, domenica abbiamo scelto ancora di avere un tetto sulla testa invece di una rilassante passeggiata all'aria aperta (di cui avrei avuto più bisogno) ma il tetto non era un tetto qualsiasi bensì la cupola della mole antonelliana di Torino che ospita l'ormai altrettanto famoso museo nazionale del cinema. Cominciando dalla sezione dedicata al "pre-cinema" e al cinema delle origini sono passata direttamente alla pacchiana sala che comprende tutto il cinema seguente, una specie di luna park di grande effetto visto il posto in cui è ospitato e le dimensioni incredibili della sala. Dal prassinoscopio di Reynaud si passa direttamente ad un chroma key che ti permette di vederti dentro guerre stellari per buona gioia di chi si era portato la macchina fotografica per finire davanti un video del tipo che conduce Gaia (sì, quello col martelletto da geologo che però per l'occasione indossava un mantello da superman) che ti spiega come si fa un film. Tutto condito da scenografie a tema... potete vedere un film western immersi in un saloon o seguire un film seduti su un water o ancora vedere un film sdraiati in comunità su un comodo lettone rosso. Il colpo d'occhio è senz'altro impressionante e per un pomeriggio diverso dal solito vale forse la pena di passare in mezzo alla gente in fila davanti ad un ascensore che, grazie ad un buco nella cupola, sale fino ad una (credo) splendida vista panoramica della città. Insomma siamo usciti pensando che la visita non valeva il viaggio ma ci siamo rifatti con una Torino leggermente piovigginosa e la sua umanità di imitatori di Agnelli e tifosi di serie B in passeggiata lungo la via "in" del centro. Via "in" che ospita anche una storica pasticceria che fa un ottimo caffè con panna e ancora migliori mignon. Porticati che conducono davanti palazzo madama e poco distante dal duomo (che ospita la sacra sindone) dove uomini provenienti dall'est ci hanno deliziato con una musica allegra di cui conoscevamo solo per grugniti il testo.
Sabato sera ho visto "Le Luci della sera" di Kaurismaki. Continua il gioco di rarefazioni dei dialoghi quasi come se i personaggi di un'umanità afflitta portati in scena dal regista finlandese non avessero più nulla da dire, come anche il cinema che non può far altro che indagare questa realtà senza speranza narrando solo la storia a cui la tecnica lo obbliga. Un film puramente europeo nelle inquadrature inutili allo sviluppo narrativo che, semplicemente, svelano spazi e producono una poesia autonoma; un cinema che vive e racconta anche e soprattutto campi vuoti deleuziani.
Nella foto lo storyboard di guerre stellari, ingrandire per credere :P
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17 febbraio 2007
06 febbraio 2007
05 febbraio 2007
Stralci di lettere.
Mi sono operato. Il mio occhio ora mi obbedisce. Non è capace di rispettare i miei ordini e allora segue il suo compagno, lo imita. Mi diverto a guardarlo allo specchio, così arrossato, che fa le corse per non rimanere indietro e lo immagino, a momenti, perdersi e ritornare inevitabilmente a seguire la sua strada. Ma non lo fa più. Non sai ora come mi fa pena, gli ho tolto la libertà. L’ho castrato, ma lui continua a lavorare per me, non mi fa dispetto. Per qualche momento, appena mi hanno tolto la benda, ho avuto idea che appena si fosse visto sarebbe morto. Se l’operazione fosse stata sbagliata io non avrei creduto all’errore del professore, ma ad un suicidio del mio occhio.
Ti confido che ora non riesco più a capire fino in fondo questo tuo martirio, o forse non capisco fino a che punto sia simile al mio. Come io ho rinnegato le mie particolarità per confondermi in mezzo ad una folla che mi spaventa e in cui non voglio sentirmi isolato, o meglio sottolineato, tu ti cancelli per gli altri. Accantoni il tuo dolore del quale mi parli come un compagno scomodo, e pretendi di farti portatrice di quello degli altri. In lettere su lettere ho intravisto la vita formarsi sulle tue gote sane anche attraverso il morto pallore della carta e ora mi sfuggi. Pretendi di essere protagonista invisibile. Io cerco l’invisibilità ma non il protagonismo, le due cose sono inconciliabili. A cosa serve un martire sconosciuto?
Non so se ho più paura dei tuoi movimenti, della tua giovinezza o dell’eventualità che tu mi costringa a scoprirmi. L’ho capito subito che eri amica del mio occhio, che simpatizzavi per lui perché credevi che il mio difetto fisico mi avrebbe impedito di nascondermi, ma ora lui non c’è più, sei davvero sicura di poter vincere la tua battaglia con tutti? Con te stessa mi pare di vedere che stai perdendo. Posso anche farti angelo ma a che serve un angelo che non sa occuparsi di se stesso? Che si strappa le piume ad una ad una fino a cadere sfinito?
4.2
Non posso rispondere alle tue domande perché non voglio pormele. Credimi pure irrisolta, ma non condannarmi in questo lungo silenzio. Parlami ancora delle tue giornate, non posso evitare di dirti che le mie hanno cominciato a fiorire d’incontri momentanei. All’improvviso mi ha circondata il dolore, ma ho conquistato la consapevolezza. Non è mia, l’ho avuta in prestito e va restituita. Tu credi che io non abbia momenti di serenità, ti sbagli. Proprio oggi toglievo le spighe secche alla lavanda. Una per una. Pregustavo il momento in cui grassi bombi ronzanti sarebbero venuti a banchettare golosi e affamati dal lungo letargo. L’erba si asciugava dopo il leggero temporale che mi aveva colta lungo i saliscendi delle dolci colline della mia terra in piccole goccioline ormai scomparse dal vetro. A quel punto ne avrei potuto solo osservare la macchia, il fantasma. Si sentiva un dolce odore di bagnato e le cesoie, regolari, inventavano la colonna sonora del tempo. Ma il tempo non aveva importanza. Lo avevo in pugno mentre gettavo a terra con una calma irreale quegli stecchi morti che lasciavano spazio alla nuova vita, la nuova fioritura attesa con la primavera. Sentivo per la prima volta come malata la dolce nostalgia che solitamente mi prende per i mesi più freddi in questo periodo di risveglio di piante a animali. Desideravo il ronzio degli insetti e godevo dell’attesa. Sono un essere sociale per quanto timido e ho dimesso in tempo la livrea invernale, ora mi posso avvicinare alle persone per dare. Non m’importa di ricevere, ma poi, se mi fermo a pensare, sono io quella che guadagna di più. Ma non vorrei ora, per convincerti, iscrivere il mio cuore in un contratto di profitto e non voglio neppure che la semplicità finisca per cedere alla retorica.
Ieri mio padre ha deciso di portarmi ad incontrare i suoi malati contadini. Sei mai stato in una di quelle case grandi e vuote? Salotti arredati solo dalla televisione, da un pasto già pronto che incrosta la pentola in attesa di essere scaldato, spighe di lavanda già secche che attendono di cadere, ma non si arrendono alle cesoie. Un mondo inviolabile di frutti maturati col sudore e raccolti in forma di scorte di salami e di vini in cantina. I soldi non sono ricchezza, i soldi non si possono mangiare. La ricchezza sono gli occhi, il cibo e le fotografie. Le carezze dopo il litigio che ha fatto alzare la pressione alla moglie. Il piccolo cane nero che abbaia dubbioso ma poi scodinzola. Galline che razzolano in cortile becchettando mais e sassi. La ricchezza è il garage lasciato ai nipoti da cui potranno trarre ogni mese un piccolo affitto. La ricchezza è essere vivi insieme ancora per due giorni. Una serenità che può essere turbata solo da un letto ormai troppo grande e usato solo a metà. Una stanza perennemente buia dove una donna si è rinchiusa per sempre ad osservare il muro in cui era appesa una foto scolorita che è stata prudentemente rimossa dai figli. Ma sul muro c’è ancora il segno della cornice. Ne sono uscita non solo con un carico di uova, vi ho portato una breccia.
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