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05 febbraio 2007

Stralci di lettere.

Mi sono operato. Il mio occhio ora mi obbedisce. Non è capace di rispettare i miei ordini e allora segue il suo compagno, lo imita. Mi diverto a guardarlo allo specchio, così arrossato, che fa le corse per non rimanere indietro e lo immagino, a momenti, perdersi e ritornare inevitabilmente a seguire la sua strada. Ma non lo fa più. Non sai ora come mi fa pena, gli ho tolto la libertà. L’ho castrato, ma lui continua a lavorare per me, non mi fa dispetto. Per qualche momento, appena mi hanno tolto la benda, ho avuto idea che appena si fosse visto sarebbe morto. Se l’operazione fosse stata sbagliata io non avrei creduto all’errore del professore, ma ad un suicidio del mio occhio.
Ti confido che ora non riesco più a capire fino in fondo questo tuo martirio, o forse non capisco fino a che punto sia simile al mio. Come io ho rinnegato le mie particolarità per confondermi in mezzo ad una folla che mi spaventa e in cui non voglio sentirmi isolato, o meglio sottolineato, tu ti cancelli per gli altri. Accantoni il tuo dolore del quale mi parli come un compagno scomodo, e pretendi di farti portatrice di quello degli altri. In lettere su lettere ho intravisto la vita formarsi sulle tue gote sane anche attraverso il morto pallore della carta e ora mi sfuggi. Pretendi di essere protagonista invisibile. Io cerco l’invisibilità ma non il protagonismo, le due cose sono inconciliabili. A cosa serve un martire sconosciuto?
Non so se ho più paura dei tuoi movimenti, della tua giovinezza o dell’eventualità che tu mi costringa a scoprirmi. L’ho capito subito che eri amica del mio occhio, che simpatizzavi per lui perché credevi che il mio difetto fisico mi avrebbe impedito di nascondermi, ma ora lui non c’è più, sei davvero sicura di poter vincere la tua battaglia con tutti? Con te stessa mi pare di vedere che stai perdendo. Posso anche farti angelo ma a che serve un angelo che non sa occuparsi di se stesso? Che si strappa le piume ad una ad una fino a cadere sfinito?

4.2

Non posso rispondere alle tue domande perché non voglio pormele. Credimi pure irrisolta, ma non condannarmi in questo lungo silenzio. Parlami ancora delle tue giornate, non posso evitare di dirti che le mie hanno cominciato a fiorire d’incontri momentanei. All’improvviso mi ha circondata il dolore, ma ho conquistato la consapevolezza. Non è mia, l’ho avuta in prestito e va restituita. Tu credi che io non abbia momenti di serenità, ti sbagli. Proprio oggi toglievo le spighe secche alla lavanda. Una per una. Pregustavo il momento in cui grassi bombi ronzanti sarebbero venuti a banchettare golosi e affamati dal lungo letargo. L’erba si asciugava dopo il leggero temporale che mi aveva colta lungo i saliscendi delle dolci colline della mia terra in piccole goccioline ormai scomparse dal vetro. A quel punto ne avrei potuto solo osservare la macchia, il fantasma. Si sentiva un dolce odore di bagnato e le cesoie, regolari, inventavano la colonna sonora del tempo. Ma il tempo non aveva importanza. Lo avevo in pugno mentre gettavo a terra con una calma irreale quegli stecchi morti che lasciavano spazio alla nuova vita, la nuova fioritura attesa con la primavera. Sentivo per la prima volta come malata la dolce nostalgia che solitamente mi prende per i mesi più freddi in questo periodo di risveglio di piante a animali. Desideravo il ronzio degli insetti e godevo dell’attesa. Sono un essere sociale per quanto timido e ho dimesso in tempo la livrea invernale, ora mi posso avvicinare alle persone per dare. Non m’importa di ricevere, ma poi, se mi fermo a pensare, sono io quella che guadagna di più. Ma non vorrei ora, per convincerti, iscrivere il mio cuore in un contratto di profitto e non voglio neppure che la semplicità finisca per cedere alla retorica.
Ieri mio padre ha deciso di portarmi ad incontrare i suoi malati contadini. Sei mai stato in una di quelle case grandi e vuote? Salotti arredati solo dalla televisione, da un pasto già pronto che incrosta la pentola in attesa di essere scaldato, spighe di lavanda già secche che attendono di cadere, ma non si arrendono alle cesoie. Un mondo inviolabile di frutti maturati col sudore e raccolti in forma di scorte di salami e di vini in cantina. I soldi non sono ricchezza, i soldi non si possono mangiare. La ricchezza sono gli occhi, il cibo e le fotografie. Le carezze dopo il litigio che ha fatto alzare la pressione alla moglie. Il piccolo cane nero che abbaia dubbioso ma poi scodinzola. Galline che razzolano in cortile becchettando mais e sassi. La ricchezza è il garage lasciato ai nipoti da cui potranno trarre ogni mese un piccolo affitto. La ricchezza è essere vivi insieme ancora per due giorni. Una serenità che può essere turbata solo da un letto ormai troppo grande e usato solo a metà. Una stanza perennemente buia dove una donna si è rinchiusa per sempre ad osservare il muro in cui era appesa una foto scolorita che è stata prudentemente rimossa dai figli. Ma sul muro c’è ancora il segno della cornice. Ne sono uscita non solo con un carico di uova, vi ho portato una breccia.

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