Ho appena terminato di leggere Opinioni di un clown di Heinrich Böll. Si tratta della storia intima di un ottimo clown sull'orlo del fallimento a causa della perdita dell'unica donna della sua vita: Maria. Il tutto collocato nel periodo della Germania post-nazista di cui Hans ricorda con terribile esattezza soprattutto le "piccole" tragedie che - seppur inserito in una società di convertiti - non è disposto a perdonare. Una riflessione, ironica, circondata da un alone di malinconia che solo un clown possiede, sulla falsa morale della religione (si scopre più cattolico dei cattolici questo personaggio sempre contro le regole della fede), sui rapporti umani, sulla società, sull'arte e sugli artisti... Con un finale estremamente poetico.
Ve lo consiglio spassionatamente, ho già provveduto a inserirlo nella lista dei miei libri preferiti. Fra l'altro mi ha fatto vagare la mente (oltre a quel capolavoro che è Luci della città) fino ad uno spettacolo dolcissimo che ho visto un paio d'anni fa: lo Slava's snow show. Se tornano in Italia, andateci, credo che il biglietto di quello spettacolo sia stata la cosa più bella che io abbia mai regalato.
Vista la necessità di avere a portata di mano un'altra storia da godere, ieri sera, sapendo che oggi avrei avuto il mio giorno settimanale di riposo, ho deciso di andare in città visto che la libreria di fianco al duomo tiene aperto fino a mezzanotte. C'era il teatro all'aperto, un balletto, e le coppiette, in punta di piedi, si tenevano per mano e sbirciavano oltre la rete a protezione dello spettacolo a pagamento, altri più semplicemente sedevano sul monumento a Verdi ascoltando la musica che nessuna barriera fisica può impedire di godere; l'erba era appena stata annaffiata e, camminando, l'acqua accarezzava i piedi; sulla grande fontana migliaia di riflessi, le chiese illuminate, il partigiano trionfante impettito e quello morente ai suoi piedi, la piazza col duomo e il battistero. Nonostante il mio rapporto di amore ed odio con queste mura, con questa gente, con questo clima (nonostante il caldo), Parma non mi è mai sembrata così bella. Dopo una buona mezz'ora di estasi davanti al settore "letteratura russa e paesi dell'est" ho scelto Medea di Ljudmila Ulickaja. Poche righe e mi ha già conquistata questa saga di famiglia, proiettata in vari tempi e in vari spazi (Grecia, Uzbekistan, Lituania, Italia, Haiti, Corea, Mar Nero), questa storia di un'anziana donna, sempre in lutto, e della sua casa di quattro stanze in Crimea che si riempie di trenta nipoti e attorno alla quale ruota tutta la vicenda. Una scrittura asciutta che indaga l'animo umano.
Uno sguardo veloce al settore "letteratura italiana" ha fatto si che accompagnassi l'acquisto con Case, amori, universi di Fosco Maraini, una figura davvero stravagante e altrettanto interessante del nostro panorama culturale, una varietà che si può riassumere nei tanti titoli che si potrebbero attribuirgli: viaggiatore, ribelle, scrittore, etnologo, orientalista, alpinista, padre...
Per il resto un polipo che bolle in pentola, odore di pesce, riposo e il pensiero che domani si torna a lavorare, ma stavolta in laboratorio. Si corre ancora di più, se possibile, ma niente vapore, passata bollente e macchine infernali. Non ho neppure un minuto, ma organizzo il giro dei prelievi di campioni in modo da passare a controllare se la ragazza che si trova al posto mio ce la fa, se gli ho spiegato bene e lei mi ringrazia con un'amicizia che forse non andrà oltre la stagione, ma che rende tanto umano quell'ambiente atroce; ad ogni sorriso scambiato qualche energia in più per terminare la giornata.
27 luglio 2007
Giorno di riposo
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23 luglio 2007
Decine, centinaia, migliaia, milioni di Tappi.
Come ogni estate comincia l'incubo dei pomodori. Comincia domani.
Immaginatemi - con la mia vestaglia a scacchi bianchi e rossi, pesante come non mai, che copre dalle mani alle ginocchia - correre su e giù per una scala cercando di essere più veloce della macchina a mettere tappi alle latte di passata bollente che ti schizza sulle braccia e sulle gambe. E, nel frattempo, immaginatemi pulire quintali di pomodoro che cadono a terra, prendere temperatura e peso di una scatoletta ogni quarto d'ora, stare attaccata ad una macchina che spruzza vapore, in un ambiente che fa minimo cinquanta gradi:
Degna del miglior Chaplin di Tempi moderni dovrò:
1) Correre su delle scalette di ferro a mettere una fila di tappi (strappare la plastichina con le unghie o con i denti).
2) Girare il rubinetto dell'acqua per pulire.
3) Correre a mettere un'altra fila di tappi.
4) Prendere in mano la calza e dare una prima sciacquata velocissima.
5) Correre a mettere un'altra fila di tappi.
6) Dare una seconda sciacquata in terra accompagnando il pomodoro verso la fogna.
7) Correre a mettere un'altra fila di tappi.
8) Passare il sapone per terra.
9) Correre a mettere un'altra fila di tappi.
10) Sciacquare.
11) Correre a mettere un'altra fila di tappi.
12) Chiudere l'acqua.
13) Correre a mettere un'altra fila di tappi.
14) Prendere una scatoletta bollente dal nastro.
15) Correre a mettere un'altra fila di tappi.
15) Aprire la scatoletta bollente cercando di non ustionarsi con la passata e inserici il termometro.
16) Correre a mettere un'altra fila di tappi.
17) Segnare peso e temperatura.
18) Correre a mettere un'altra fila di tappi.
19) Versare il contenuto del barattolo bollente nel secchio e correre a svuotarlo.
20) Correre a mettere un'altra fila di tappi.
21) Andare a raccogliere le scatolette bollenti che sono scappate dal nastro.
22) Correre a mettere un'altra fila di tappi.
23) Rimettere le scatolette bollenti ad una ad una sul nastro.
24) Correre a mettere un'altra fila di tappi.
25) Portare via plastica e carta in un posto improbabile.
26) Correre a mettere un'altra fila di tappi
27) Sostituire il bancale di tappi.
28) Correre a mettere un'altra fila di tappi.
27) Girare il rubinetto dell'acqua per pulire...
E i signori politici "fanno la mossa" e allungano l'età pensionabile di due anni, praticamente conservando lo scalone. Non si può morire di lavoro, non si può vivere per lavorare. (E io scema ho dato lo 0,85% del mio stipendio alla FLAI!!!)
Sopravviverò e cercherò di farmi viva ogni volta che mi sarà possibile. Per due mesi è quasi sopportabile (si perdono cinque o sei chili di peso, ci si ustiona, si lascia in fabbrica un pò di udito e infine si hanno ematomi un pò ovunque [l'anno scorso ci ho anche lasciato mezzo dente]), immaginate la condizione di salute di chi è costretto a farlo per tutta la vita.
La prossima volta che andate a comprare la passata al supermercato, fate un pensiero per quei poveri cristi che hanno sudato come i pazzi per permettere a quella comodissima scatola di arrivare fino alla scansia a portata delle vostre mani.
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19 luglio 2007
Sei anni fa, per noi soltanto ieri.
Genova G8
19 Luglio 2001
Siamo partiti che il sole era alto nel cielo, caldo afoso di una giornata di piena estate. Gli anziani ci avevano avvertiti, ma noi avevamo dato poco peso ai loro consigli, limitandoci a mettere limoni nello zaino e a trascinarci dietro i pesanti caschi dei motorini. Il TG aveva riportato le raccapriccianti immagini di Napoli, quel giorno eravamo corsi tutti nella fumosa sede di partito e, tremanti di rabbia, eravamo rimasti tutti davanti al televisore, senza che una sola parola trovasse la forza di scalare la gola, appoggiarsi sulla lingua e uscire dalle labbra. Le canzoni, anch'esse, raccontavano di omicidi di Stato e polizia, ma noi avevamo 17 anni, di morte conoscevamo solo quella gelida di frigo dei nostri nonni. Il treno era rosso, il treno veniva dal mare, il treno era lungo da sembrare quasi infinito, stracarico di persone gioiose i cui occhi non avevano visto riposo durante la notte. A Bologna la stazione sembrava un piccolo accampamento. Io avevo comprato il vino e le bibite, qualcosa da mangiare e avevo trovato i compagni grazie a F. e A. che si sporgevano per metà dal finestrino, cercandomi.
Poi ore e ore fermi in campagna, sempre lo stesso panorama dal finestrino. Ore che passano e scorte d'acqua che finiscono. Finalmente la scogliera, affascinante e inquietante al tempo stesso, piccole immagini veloci fra una stretta galleria e l'altra, e infine l'arrivo a Genova, grossa metropoli per noi; la città e i suoi abitanti imprigionati da alti cancelli di ferro, lo stadio che ci accoglie. Una grossa tenda bianca a far da madre a sterminate tendine da campeggio, di tutti i colori. I ragazzi dell'organizzazione che fanno quello che possono per farci sistemare, riposare, ristorare dopo la deportazione. Dormire tutti insieme, come una piccola famiglia sognatrice.
La mattina e la prima gioiosa manifestazione, musica - visi sorridenti riflessi sui tromboni tirati a lucido per la festa - amicizie spontanee, numeri circensi, vecchie canzoni, tanta allegria e partecipazione, il sentire di far parte della storia.
Dopo un caldo pomeriggio, la notte, che stende un velo sullo stadio e sulla nostra fiducia. Siamo circondati. Delle ragazze che sono uscite per andare in bagno sono state portate via. Notizie di pestaggi fra le vie del centro.
20 Luglio 2001
Ci si alza presto, si lavora frenetici fra la polvere del campo da gioco nel preparare armature che, con arbitrario atto di forza, le tute bianche ci portano via. Ci si accontenta di giubbotti di salvataggio per parare le botte sussurrateci dai fatti della notte.
Negli autobus stracarichi la gente di Genova ci guarda incuriosita, senza diffidenza, forse sente nell'aria la paura che ci blocca il passo lungo la strada costeggiata dalla ferrovia. Qualcuno non se la sente e rimane indietro. I più bardati o coraggiosi vengono spinti avanti.
Il sogno, l'adolescenza e la fiducia muoiono al primo attacco, su zona concordata, senza che ci fosse stato il benché minimo disordine. Colpi e stavolta non solo di lacrimogeni. Gas che attacca la gola, barilotti che piovono dal cielo e lasciano segni pesanti sui caschi. B. si sente male. "Limoni, limoni, per favore dateci dei limoni!" La calca, la paura spinge. Il gas attacca la gola. Non si riesce più a respirare, la bocca tira aria che non scende ai polmoni e se scende li rende urticanti. Un ragazzo sviene, rischia di essere schiacciato, lo trascinano. Dal camion incitano a resistere, ma non si può, che significa? Perché? Una ragazza sanguina, colpita da un barilotto. Un'ambulanza! Una via laterale, come un'utopia, nella strettoia dove ci hanno teso l'agguato. Corriamo, ci siamo persi di vista. Mi fermo un attimo a riprendere quel fiato che non si decide a ricominciare a rifluire nella mia trachea. Vedo L. che urla. "Scappa, scappa!" Corro nonostante l'asma provocatami dal gas. Dietro di lui i celerini. Ci inseguono a manganelli spianati. Qualcuno fa in tempo a rovesciare dei cassonetti, pochi secondi guadagnati agli inseguitori che ci permettono di capire quello che sta succedendo, avere il tempo di costringere il corpo sfinito a fare un ultimo sforzo. Altri non ce la fanno. Li buttano a terra e li bastonano. A sangue. Tirano giù i feriti dalle ambulanze.
Solo alcuni di noi ce l'hanno fatta, non c'è nessuna consolazione in questo. Buttiamo i nostri giubbotti di salvataggio e, d'ora in poi, ci fidiamo solo delle nostre gambe. Sappiamo di dover evitare soccorsi, ambulanze, ospedali a qualsiasi costo. Correre il più veloce possibile senza impacci. Sappiamo che possiamo essere attaccati dovunque, in qualsiasi momento. Il fiato ancora non torna, gli occhi bruciano. All'improvviso non vedo più niente. Dopo la necessità della fuga la paura attacca le mie gambe. Cado. Mi soccorrono dei turisti tedeschi. Mi lavano gli occhi, mi aiutano a respirare.
Due di noi mancano.
Ci ritroviamo in gruppo con altri ragazzi. Compaiono dal nulla i famosi black block e si buttano in mezzo a noi, altri spaccano vetrine, incendiano macchine. Qualcuno cerca di impedirglielo ma arrivano i celerini. Si buttano anch'essi in mezzo a noi picchiando, insultando, facendo gesti osceni. Nessun black block viene disturbato in quello che sta facendo. Altri di noi restano sanguinanti sulla strada.
Si alzano colonne di fumo ed elicotteri, macchine vengono incendiate.
Riusciamo a tornare allo stadio, ci chiudono dentro senza più niente da mangiare.
Squilla il cellulare: è C.
C.: "chiamate l'avvocato, non mi fanno fare altra telefonata, mi stanno picchiando, ho paura, chiamate l'avvocato" e B gli dice: "ma dicci almeno dove sei, dove sei?" C.:" non posso dirlo, mi picchiano, per favore, aiutatemi".
Cala il silenzio, B. piange. Ci giunge voce che una ragazza è stata uccisa, no è un ragazzo, sembra sui vent'anni. A. non regge più. Esplode tutta la tensione. La rabbia e la paura si sono trasformati in odio, un sentimento che credevamo non avremmo mai conosciuto. Butta tutto all'aria e grida. Dobbiamo immobilizzarlo per evitare che si faccia male.
Ragazzi si lanciano contro la rete urlando: "Assassini!"
La notte non ci concede riposo. Un violento acquazzone ci costringe a scavare canali nel fango per salvare la poca roba che ci siamo portati dietro. Tutti gli oggetti, i saccapeli, gli abiti, si ammucchiano al centro della grande tenda collettiva, nessuno può dormire.
Torna G., D. lo insulta per lo spavento, altri lo abbracciano, tutti gli raccontiamo di C. Lui ci dice di esser stato salvato da alcuni genovesi che gli hanno aperto il portone. Altre case sono state devastate dai celerini che hanno fatto in tempo ad entrare.
21 Luglio 2001
Tutti i negozi sono chiusi, da ventiquattro ore non mangiamo. La gente, che il giorno prima colpita dalla furia della polizia ci aveva aperto i portoni per salvarci, ci getta acqua e merendine dalle finestre, il cuore si riempie di nuovo con tanta solidarietà, ricominciamo a credere che qualcuno si sia reso conto di cosa sia successo e sia dalla nostra parte. Ci sono tante famiglie, bambini e anziani: oggi non può succedere niente. Riesco a chiamare per un minuto a casa, per tranquillizzarli, la linea è stata momentaneamente riattivata. Mi dicono che non fanno vedere quello che sta succedendo. Io gli spiego che i giornalisti vengono massacrati più di tutti, i filmati e le foto vengono distrutte.
Poi dalla caserma e dalle camionette vediamo scendere poliziotti in borghese che si mischiano alla folla e spaccano qualsiasi cosa sia alla loro portata. Ora sappiamo chi erano in realtà i black block del giorno precedente. I celerini in divisa salgono in piedi sui tetti delle camionette urlandoci "figli di puttana, morirete tutti". Facciamo cordoni di sicurezza, chiunque sia armato di bastoni viene allontanato. Di nuovo subiamo attacchi coi lacrimogeni. Qualcuno comincia a rispondere tirando sassi o ritirando indietro i barilotti ancora fumanti, permettendo così di creare fra i manifestanti e i celerini un vuoto che fa sì che gli anziani, le famiglie, i bambini non si trovino direttamente sotto l'attacco. Negli occhi della gente si vede la rabbia per l'omicidio, per i colpi misteriosi sparati a decine e i bussolotti dei proiettili ritrovati per terra, per la gente che non si trova più, per la distruzione della città ad opera dei finti black block, le percosse e gli insulti. Ci copriamo la bocca con i passamontagna bagnati di acqua e succo di limone, chi ne è sprovvisto anche solo con dei fazzoletti. Un anziano sanguina alla testa e una donna gli sta facendo bere dell'acqua; un bambino non trova più i suoi genitori, qualcuno gli tende la mano e lo rassicura. Il corteo arriva alla fine del percorso, ma il palco per noi è troppo lontano. Decidiamo di andarcene. Un gruppo di circa cinquanta persone si stacca dalla massa e si allontana per una via laterale, cercando di tornare allo stadio. I celerini ci trovano, ci attaccano. I pacifisti si siedono con le mani bianche tese verso il cielo. Vengono picchiati e portati via. Noi riusciamo a scappare. Ci spingono sempre più su, sempre più su, finché l'intera città è sotto i nostri piedi. Siamo sfiniti, capiamo che dobbiamo organizzarci. Con l'ultima energia delle batterie scariche dei cellulari riusciamo a chiamare il comune di Genova, gli supplichiamo di salvarci. Arrivano prestissimo degli autobus di linea vuoti. I celerini se ne sono andati, riusciamo a tornare allo stadio. Dai finestrini uno scenario di guerra, pensiamo ad un colpo di stato.
Non pensiamo ad altro che a tornare a casa. Raduniamo le nostre poche cose e cerchiamo di raggiungere la stazione. I miei compagni riescono a prendere un treno per Ancona: l'ultimo. Ordini dall'alto bloccano la stazione. Celerini entrano e dall'altro binario minacciano di ucciderci. Siamo tanti tutti pigiati sul binario, io mi accorgo di star piangendo. Le gambe mi vengono meno, qualcuno che non conosco mi sorregge. Arriva la voce dei pestaggi alla Diaz, vogliamo tornare indietro, ma non ci è possibile. Un muro di cani affamati di sangue spinge. Insultiamo il capotreno, lo intimiamo di partire. Ci dicono che l'unico treno va solo a Rimini e che a Rimini ci avrebbero scortato in questura. Pur di scappare ai cani rabbiosi saliamo. Non ci stiamo, ma la gente si mette persino al posto dei bagagli pur di andarsene. A La spezia tiriamo il freno di emergenza e scappiamo dai finestrini nella campagna, nella notte.
Sul piccolo treno diretto a Parma il controllore ci guarda e non ha la forza di chiederci i biglietti, che non avevamo, ci permette di arrivare a casa senza altri traumi.
Le prime parole che mi sono sentita dire, finalmente arrivata a casa all'alba, da un DS sono state: "fosse per me avrei sparato sulla folla ammazzandone il più possibile".
Dopo troppi giorni
Il padre di C. , un rettore di un'università, ritrova suo figlio, volontario in croce rossa, solo perché un parlamentare in visita ad un carcere di una città del Nord ne ha fatto una descrizione su un giornale. Quando lo vede è talmente pieno di escoriazioni che non lo riconosce. La mandibola è stata spostata dal suo asse e dovrà essere operato. E' traumatizzato.
Non riesce a raccontare per tanto tempo la notte intera a braccia alte, i corridoi di persone in cui eri obbligato a passare e in cui ti picchiavano, gli insulti, i baci obbligati alle foto di Mussolini. E' stato preso perché aveva dato il suo casco ad una ragazza che ne era sprovvista e un lacrimogeno, colpendolo in testa, l'aveva fatto svenire. Lo avevano picchiato mentre era in terra svenuto con quel colpo alla mandibola e avevano continuato il pestaggio, le minacce in caserma.
Nessuno si azzardi a dire: "ma anche fra di voi c'erano delle teste calde", non lo tollero, mi limiterò a cancellare qualsiasi commento del genere.
Scusate gli errori, non riesco a rileggerlo.
http://www.youtube.com/watch?v=bpfLMvLYFgg
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16 luglio 2007
Piccola cronaca di un piccolo viaggio.
Avrei potuto scrivere un post lunghissimo ma vi riporto una vacanza di dettagli, le stesse foto hanno cercato di essere tetti, visi, particolari, semplicemente, il più semplicemente possibile.
L'itinerario si è modificato per una serie inaspettata di guai... che fanno parte del viaggio.
A Praga un uomo sporco che disegna con un carboncino pesante su fogli spessi e macchiati, mentre turisti frettolosi gli passano intorno senza accorgersene.
Il castello, la cui proiezione ha tormentato l'immaginazione di Kafka, di notte, oltre il ponte, sopra la città.
Le vie strette della città vecchia e i negozietti dove piccole matrioske libere da matrioske più grandi si contendono l'attenzione dei passanti.
Il quartiere ebraico con la sua luce soffusa, raggi rapiti dalle tante nuvole di passaggio, che filtra appena a far risplendere l'oro della sinagoga spagnola, a trovare uno spiraglio fra le foglie per appoggiarsi su un sasso a fermare un pensiero, sulle lapidi disordinate del cimitero ebraico.
A Český Krumlov, la Moldova che abbraccia le case, costringendo gli uomini a costruire ponti. Il sapore di una trota e la pioggia incessante a rendere il cielo bianco e il castello, patrimonio dell'UNESCO, ancora più sfarzoso e colorato. Una soffitta con le sue travi di legno dove raccogliere pensieri e sensazioni, progettare un viaggio che continua, riposarsi e lasciarsi coccolare da una colazione "a conduzione familiare".
A Lubiana il mercatino della frutta, nonne e nipoti, piccoli banchi con poca frutta appena colta da mani callose e nere in minuscoli orti. Passeggiate tranquille a seguire il fiume, bancarelle di libri usati, il sole che torna a splendere.
E per finire due consigli: A Lubiana Gostilna Vodnikov Hram, a Český Krumlov pensione Rosa.
Qui ho pubblicato le foto, divise nelle tre principali località che abbiamo visitato.
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01 luglio 2007
Siempre, presidente!
Ascoltando vecchi LP degli Inti-Illimani, fra copertine sgualcite da tante mani che le hanno accarezzate con tenerezza, cuori che ci si sono appoggiati con passione, fra il fruscio della testina del vecchio giradischi comprato con grandi sacrifici, ho ritrovato questa frase che mi ha tramortita, riportando subito la memoria a quei fatti vissuti solo nel grande schermo e alla bandiera del Cile cucita da me che non so cucire, punto per punto, e che riposa nel cassetto del mio studio fino al prossimo 11 settembre, quando, di nuovo, verrà esposta oltre la finestra, oltre la casa, oltre una corta memoria revisionista.
"...Sono pronto a resistere con ogni mezzo, anche a costo della vita, in modo che ciò possa costituire una lezione nella storia ignominiosa di coloro che hanno la forza ma non la ragione".
SALVADOR ALLENDE, 11 Settembre 1973 (giorno del golpe e della sua morte)
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